Nino Di Matteo si è lasciato un enorme peso alle spalle: la requisitoria al processo Statomafia. Incombenza opprimente non per la difficoltà di sostenere l’accusa, come si potrebbe pensare. Casomai per la pretesa, ammirevole, di ricostruire «la Storia» più che i reati commessi. E il mestiere di storico, si sa, è tra i meno gratificanti, visto che dovrebbe aspirare a una verità il meno possibile soggettiva. Così, il magistrato già formalmente in servizio come sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia (“prestato” al processo palermitano solo quando occorre) può girare l’Isola e il Continente per convegni. L’ultimo due giorni fa, sulla “Mafia 2.0”, a Roma. Ha detto molte cose: per esempio che fa specie il ruolo ancora decisivo di Berlusconi in politica.

Ma come, si è rammaricato Di Matteo, l’ex premier è citato nelle sentenze su Dell’Utri e ancora conta? ( Il fatto che Berlusconi, in quei processi, non sia mai stato imputato dev’essere una quisquilia). Meno risalto ha avuto un’altra affermazione, relativa al codice etico dei cinquestelle: «L’ho apprezzato non perché volessi aprire al Movimento, ma per l’opportuna separazione tra responsabilità penale e politica nei reati di corruzione». Di Matteo intende dire che i grillini fanno bene a prevedere l’obbligo di dimissioni per un politico anche quando si è appena nelle fase delle indagini: seppur sussista la presunzione di non colpevolezza ( art. 27 della Costituzione e art. 6 della Convenzione Diritti dell’uomo) il magistrato di Palermo rileva una questione di opportunità. Chi è solo sfiorato dal sospetto deve sparire, insomma. E va bene. Prendiamola per buona. Avanziamo però noi una proposta. Non genericamente intesa: è rivolta proprio a Di Matteo. Sia chiaro: non c’entra il fatto che il magistrato domani interverrà a “# Sum02”, la kermesse organizzata dall’Associazione Gianroberto Casaleggio; non è perché sospettiamo voglia entrare in politica al fianco di Luigi Di Maio ( lo sospettiamo ma non è in virtù di quel sospetto che rivolgiamo a lui la proposta). Allora, ecco la controfferta: va bene, Dottore Di Matteo, fuori se si è solo sospettati. Anche se si è sospettati per le calunnie di un pentito o per gli esposti tendenziosi di un rivale. Fuori. Il sospetto trionfi. Anche per i magistrati però. Se un pm riceve critiche, aspre critiche dai giornali, per come conduce un’indagine, per la pretestuosità delle accuse che sostiene in un lungo processo, deve autosospendersi. E se pure una lunghissima inchiesta si schianta in un clamoroso insucesso, niente toga per cinque anni. Ragioni di opportunità. Le sentenze dei giornalisti non sono definitive, mai. Neppure le ordinanze di custodia cautelare o gli avvisi di garanzia implicano un giudizio definitivo. Ma Dottore, l’opportunità è un valore. Sia rispettato. Mettiamolo in Costituzione. All’articolo 27, magari, così fuori moda.