Su 58 senatori leghisti uno solo, la settimana scorsa, ha disobbedito all’ordine di votare per Anna Maria Bernini affondando così il candidato di Berlusconi, Paolo Romani. È lo stesso senatore che, mentre tutti si spellavano le mani per la mossa vincente di Matteo Salvini, lo bersagliava per aver messo a rischio le giunte della Lombardia e del Veneto: «Se saltavano lo impiccavano come il suo amico Mussolini». Trattasi di Umberto Bossi, fondatore e per decenni capo assoluto della Lega. Che a Bossi l’erede proprio non vada giù è noto, e il poco cordiale sentimento è più che ricambiato. Per inserire il Senatur in lista, unico sopravvissuto in Parlamento della vecchia guardia, c’è voluta l’intercessione di Berlusconi, un tempo arcinemico poi legato a Bossi da sincero affetto. Salvini non voleva saperne.

La Lega del 2018 in effetti ha ben poco a che vedere con quella nata nel 1989 dall’unificazione di sei liste locali tra le quali la Lega lombarda fondata tra il 1982 e il 1984 da Bossi. A Salvini la Padania va stretta, la secessione deve sembrargli una barzelletta di dubbio gusto, la parola ' federalismo', che Bossi riusciva a ripetere 150 volte al minuto, non gli è scappata di bocca una volta in campagna elettorale. Senza contare le nostalgie antifasciste che spinsero Bossi a presentarsi addirittura alla grande manifestazione milanese contro il primo governo Berlusconi, nel 1994, rivendicando per il suo Carroccio «l’eredità della antifascista e partigiana». Il successore, al contrario, ha prudentemente resistito a ogni tentativo di costringerlo a pronunciarsi in materia, prima delle elezioni.

Alle orecchie di Bossi il progetto di una ' Lega Italia' deve suonare come il più stridente tra gli ossimori. Non c’è percentuale, ai suoi occhi, che valga il sacrificio della sola ragion d’essere della Lega per come la aveva voluta e costruita lui: la difesa degli interessi della Padania. Per Salvini, temi del generale sono archeologia politica. Eppure i due sono molto più simili di quanto possa apparire. Matteo Salvini è in tutto e per tutto erede di Umberto Bossi, se non nel progetto certo nel modo di proporsi e di intendere la politica.

Del resto hanno una storia si- mile, con le dovute differenze generazionali. Bossi era approdato alla politica simpatizzando per il movimento rivoluzionario dei primi anni ‘ 70 e prima di approdare al federalismo era passato per il Pci, con tanto di tessera in tasca. Salvini, vent’anni dopo, aveva annusato l’aria bazzicando cenri sociali e anche dopo essere approdato nella Lega aveva continuato a considerarsi, ' comunista padano', area interna al Carroccio di cui era leader. Finiti entrambi a destra, il primo senza mai ammetterlo, il secondo senza andare troppo per il sottile, hanno tuttavia entrambi mantenuto uno sguardo privilegiato sulla base sociale che un tempo era tradizionalmente di sinistra. La celebre battuta di Massimo D’Alema, che nel 1995 definì la Lega ' una costola della sinisa. stra', è a tutt’oggi universalmente derisa ma assolutamente a torto.

L’allora segretario di un Pds che non aveva perso del tutto di vista le radici Pci non parlava a sproposito. Era del tutto consapevole della matrice operaia, e spesso Fiom, di una parte sostanziosa del voto leghista. Sapeva che quei voti, più che da localismo sciovinista, erano dettati dalla speranza di trovare una nuova rappresentanza d’interessi. Salvini fa la stessa colotta Se il voto che premia M5S è in larghissima misura voto d’opinione quello leghista, soprattutto nella sua terra d’origine al nord, è invece difesa di interessi specifici e spesso popolari. Lo sapeva benissimo il Bossi dei primi anni ‘ 90, quando ridicolizzava la componente leghista che faceva capo alla ex Liga veneta di Rocchetta: «Quello pensa davvero che la gente voti Lega per la lingua o i costumi veneti. Mica si rende conto che gli elettori leghisti spesso sono meridionali immigrati che difendono i loro interessi».

Lucia Annunziata, sull’Huffington Post, ha sintetizzato perfettamente il modus operandi di Salvini: «Predicare al “fuori” della politica riversando poi il peso di questo voto d’opinione sul “dentro” del circuito politico» . Si può discutere sul fatto che il voto leghista sia o no solo d’opinione, non sul gioco “dentro- fuori” rispetto al palazzo che è invece colto con precisione. Era lo stesso gioco in cui era maestro Bossi: tribunizio e molto più estremo di Salvini sui plachi, pragmatico e accorto nelle aule parlamentari. Persino l’accoppiata tra Salvini il Ruggente e Giorgetti il Riflessivo, ricorda il gioco di coppia nel quale eccellevano Bossi e il molto più calmo Bobo Maroni ai bei tempi.

A prima vista sembra impossibile sostenere che la Lega non è cambiata. Ma forse è proprio così: o più precisamente si è adeguata ai tempi, ha cambiato tutto senza modificare, in fondo, il dna impresso a suo tempo proprio dall’ormai isolato e tramontato Umberto Bossi.