Non c’è giorno che contro l’Occidente - a rimorchio di Nietzsche, Spengler, Heidegger e affini non venga sparata una micidiale scarica di recriminazioni, denuncie e accuse. L’Occidente è in crisi, anzi in inarrestabile declino, agonizzante se non addirittura morto, inerte sulle macerie del suo proprio passato, nel rimpianto accorato delle sue radici cristiane e della sua spiritualità, nel nostalgico ricordo delle sua potenza e del suo orgoglio, divenuto ormai solo individualista, arrogante quanto sostanzialmente impotente, irreparabilmente sepolto sotto il peso intollerabile della tecnica e delle tecniche. L’ultima cannonata - L’Occidente è rovinato? è di Bernard- Henri Lévi, incastonata sulla copertina de L’Express in occasione dell’uscita dell’ultimo libro del filosofo in cui si tratta del tramonto dell’egemonia americana e dei suoi effetti sugli equilibri geopolitici globali. Analisi e timori veri, o fantasticherie senza senso, dettate da una visione deformata e tendenziosa della realtà?

Si possono portare mille ottime ragioni per smantellare queste affabulazioni, ma oggi mi limito a segnalare in proposito, scherzosamente ma anche un po’ sul serio, una fotografia che campeggia, su quattro colonne, in prima pagina de La Repubblica ( 29 marzo). E’ una fotografia importante, scattata per immortalare il brindisi celebrato dal leader coreano Kim Jong- un e il presidente ( a vita) cinese Xi Jinping nel corso di un pranzo ufficiale durante il viaggio a Pechino dell’esponente nordcoreano, a suggello dei successi diplomatici conseguiti grazie alla potenza nucleare di cui, tra l’allarme di tutto il mondo e l’impotenza americana, ha dotato il suo paese.

La lettura della foto è inequivoca e sorprendente. I due capi di Stato - in giacca e cravatta il cinese, in giaccone di foggia militare il coreano - alzano dei normalissimi bicchierini di quelli che teniamo spesso nelle nostre familiari credenze. La tavola è imbandita più o meno come sarebbe a un pranzo ufficiale a Buckingam Palace o al Quirinale. Al centro della tavola due o tre calici di quelli che normalmente usiamo per i vini bianchi. Niente tazzine di porcellana per il tradizionale tè o saki, niente ciotole di riso o bacchettine d’avorio. Impettiti e indaffarati, in piedi dietro la tavola, due camerieri in giacca scura e papillon; tutto intorno siedono o stanno in piedi, graziosamente sorridenti, signore o signorine in tailleur o avvolte in maglioncini chiari che mettono in risalto i seni. Solo a una estremità della foto appaiono, appesi al muro, due quadretti con immagini forse orientaleggianti. Sullo sfondo, ben piegate e in ordine alternato, le bandiere dei due Stati. Insomma, la fotografia rappresenta una scena, o una situazione, tipicamente occidentale.

Non molto tempo fa, i due leader avrebbero indossato, quanto meno, le marziali divise immortalate da Mao Tse Tung, e le signore avrebbero sfoggiato kimono colorati e sgargianti, simbolo dell’orgoglio di un Oriente che contrappone i suoi valori a quelli delle potenze un tempo coloniali. La straniante impressione si ripete anche ( ovviamente) per la fotografia che appare, nella stessa data, sul Corriere della Sera, con i due leader mentre, in piedi, ripetono il rito del brindisi: non c’è alcun dubbio, i due hanno in mano calici da vino bianco, da trattoria romanesca.

Eppure non è passato molto tempo da quando ministri, ambasciatori, uomini d’affari provenienti da ogni paese dell’Africa sbarcavano a Heathrow o a Fiumicino avvolti nei loro vivaci costumi, magari indossando le tradizionai babbucce simili alle nostre pantofole. E sullo sfondo propriamente politico si faceva orgogliosamente largo l’ideologia di Bandung, la conferenza afroasiatica che si tenne nel 1955, convocata su iniziativa di India, Pakistan, Birmania, Ceylon, Repubblica Popolare Cinese e Indonesia al fine di cercare una coesione fondata sui caratteri comuni di ' arretratezza', e di riunire in u unico blocco i paesi neutrali durante la guerra fredda ( i “paesi non allineati”). Protagonisti furono l’indonesiano Sukarno, l’indiano Nehru, il cinese Zhou Enlai e l’egiziano Nasser. Nella dichiarazione finale si proclamò l’eguaglianza tra tutte le nazioni, il sostegno ai movimenti impegnati nella lotta al colonialismo, il rifiuto delle alleanze militari egemonizzate dalle superpotenze e alcuni principi fondamentali di cooperazione politica internazionale fra i Paesi aderenti.

Nei nostri ricordi, Gandhi era malamente coperto da una fascia bianca alla vita, del tutto simile a quelle che rivestivano le magre spalle di milioni di contadini e suoi compatrioti in cerca di riscatto nazionale. Quell’abbigliamentoo, o il sari delle donne indiane, lo sciamma delle eritree o il kaftan medioorientale, ci facevano immaginare l’Oriente, l’esotismo, le odalische dipinte da Ingres, la Salammbô di Flaubert, gli oceani di Melville o di Conrad, l’Africa di Hemingway, gli acquerelli di Utamaro, il Sandokan di Salgari, le maschere africane riesumate da Picasso: tutto un mondo fascinoso, l’Oriente intriso dei baudelairiani “calme, luxe et volupté”. Tutto sparito. L’Occidente ha fagocitato tutto, ha plasmato tutto sui suoi usi, costumi e credenze. Le sue tecnologie sono la spina dorsale dello sviluppo mondiale, Beethoven ha soppiantato i tam tam, i bambini dei più remoti paesini d’Africa giocano, indossando blue jeans e T- shirt, a pallone, i loro idoli sono Messi o Ronaldo. Bandung è dimenticata, chissà se il Presidente cinese indossa cravatte Marinella?