La sera del 20 marzo di 39 anni fa, viene ucciso a Roma, in via Orazio, poco prima delle 20,40, Mino Pecorelli. È il direttore di un settimanale Osservatore Politico, da tutti conosciuto ( e avidamente letto) come OP. Il lungo iter giudiziario si conclude con la piena assoluzione degli imputati, tra cui Andreotti. Il delitto Pecorelli resta senza colpevoli.

Ne abbiamo scritte e dette di ogni tipo, in questi giorni, sull’Affaire Moro, profittando del 40 anniversario della strage a via Fani. In questo oceano di parole, dove tutti hanno ricordato, rievocato, raccontato, interpretato, si registrano anche dei vuoti. Uno, clamoroso – ma ci si potrà tornare, ne vale, letteralmente, la pena – la furibonda polemica che si accende in generale attorno al distorto slogan “Né con lo Stato, né con le Br”, malevolmente attribuito come paternità, a Leonardo Sciascia: che mai ha detto quelle cose e le ha pensate. Occasione- pretesto per una lacerante polemica: quel che si sostiene e scrive ( e si fa) attorno alle lettere che Aldo Moro in quei 55 giorni del sequestro e prima d’essere ucciso, merita d’essere pensato e ri/ pensato. Ma nessuno si è ricordato ( e ha riconosciuto) che Sciascia con il suo L’Affaire Moro ( da tanti criticato e contestato, senza neppure averlo letto, due per tutti: Eugenio Scalfari e Indro Montanelli), aveva visto giusto, e soprattutto ha avuto il torto di avere ragione. Quelle lettere erano Moro, con quello che ne consegue.

Ma oggi c’è un altro clamoroso “vuoto” con cui in qualche modo occorre fare i conti.

La sera del 20 marzo di 39 anni fa, viene ucciso a Roma, in via Orazio, poco prima delle 20,40, un giornalista. L’assassino, o gli assassini, lo sorprendono a bordo della sua automobile, e lo crivellano con quattro colpi di pistola. Quel giornalista si chiama Mino Pecorelli, ed è il direttore di un settimanale Osservatore Politico, da tutti conosciuto ( e avidamente letto) come OP.

Chi è Pecorelli all’epoca lo sapevano tutti gli addetti ai lavori ( oggi, magari un po’ meno; per dire: nelle rievocazioni dei giornalisti uccisi, il suo nome non figura mai, eppure il tesserino rosso in tasca l’aveva lui pure. E che il suo non sia stato un suicidio, è sicuro…).

Negli atti processuali, Pecorelli viene così descritto: «… Era uno spregiudicato e scanzonato avventuriero della notizia. Le sue allusioni più o meno decifrabili, la sua ironia, il suo sarcasmo talvolta incisivo ed elegante, talvolta greve e becero, disegnano la traccia di una personalità complessa ma, tutto sommato, ben delineabile. La traccia di una passione civile affermata con troppo chiari accenti di sincerità per non essere autentica, anche se posta al servizio di valori e di scelte discutibili. Una passione civile nella quale sopravvive lo spirito di avventura che lo aveva portato, a sedici anni, a combattere con le truppe polacche inquadrate nell’esercito inglese. E poi, il gusto di infastidire i potenti, di svelarne le meschinità piccole e grandi, di incrinarne la facciata impeccabilmente virtuosa. Soprattutto, come abbiamo detto, una personalità ingovernabile».

Per tanti, se no per tutti, Pecorelli s’era fatta fama di “ricattatore”. Il non lieve particolare, è che non è morto lasciando particolari proprietà e “beni”. Certamente avrà cercato finanziamenti e sostegni, finalizzati alla sopravvivenza della sua rivista, di cui era anche editore. Certamente avrà pubblicato documenti e “materiali” che a qualcuno conveniva fossero pubblicati e resi noti. Un do ut des che ben conosce, e quasi sempre pratica, chi per mestiere frequenta aule di tribunale e palazzi del potere. Certamente Pecorelli dispone di ottimi contatti ed “entrature” nel mondo non solo dei servizi segreti, ma di coloro che “sanno”; ha una quantità di materiali e li pubblica. Non è insomma persona “comoda” per tanti, prova ne sia che a forza di “incomodare”, finisce come è finito.

Perché Pecorelli merita d’essere ricordato, e qualcuno ancora oggi si adopera perché non lo sia? In soccorso vengono ancora gli atti processuali: «La lettura della collezione di OP nel periodo marzo 1978- marzo 1979 rafforza il convincimento che grazie ai suoi collegamenti… fosse a conoscenza di inquietanti retroscena o accreditandosi dinanzi ai lettori – forse a qualcuno in particolare – quale depositario di “riservatissime” informazioni. Sta di fatto che OP è stato l’unico organo di stampa a pubblicare, nella fase del sequestro, alcune lettere di Moro ai propri familiari… Grazie alle sue indiscusse entrature negli ambienti del Viminale e della Questura di Roma era dunque riuscito a procurarsi copia di quel carteggio epistolare…».

C’è tantissimo altro ( e di altro interessante, e che merita di essere letto e ri/ letto con gli occhi e il senno dell’oggi) nelle duecentomila pagine chiuse in 400 faldoni del processo Pecorelli celebrato a Perugia; un labirinto di carte meritoriamente conservato e digitalizzato nell’Archivio di Stato di Perugia: uno spaccato di Italia di “ieri” e la cui ombra ancora si profila sull’“oggi”.

Un filo d’arianna in questo labirinto viene da un recente libro, Il Divo e il giornalista scritto a quattro mani da Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno ( Morlacchi editore, pp. 377, 15 euro).

Fiorucci è forse il giornalista che più di ogni altro può citare a memoria quella babele di carte. Cronista prima di Paese Sera, poi di Repubblica, per anni ha retto la sede della Rai di Perugia, e in questa veste ha seguito tutte le udienze di quel tormentato processo che ha visto sul banco degli imputati Giulio Andreotti, e Claudio Vitalone “mescolati” a mafiosi del calibro di Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò, un Massimo Carminati all’epoca giovane militante della destra estrema, ed elementi della Banda della Magliana. Guadagno, impiegato al ministero della Giustizia, in virtù del suo lavoro ha preso parte alle attività processuali, raccolto e catalogato quel mare di carte e certamente le conosce e sa “leggerle” come pochi.

Il lungo iter giudiziario, va ricordato, si conclude con la piena assoluzione degli imputati. Il delitto Pecorelli resta senza colpevoli. Assolti coloro che venivano indicati come esecutori, assolti coloro che venivano indicati come mandanti. Ma, ricorda il procuratore di allora Fausto Cardella, «le carte restano per chi voglia conoscere un pezzo della nostra storia, ancora da scrivere».

Il valore del certosino lavoro dei due autori consiste in una puntuale ricostruzione di una sconcertante successione di episodi e di fatti che hanno “segnato” la nostra storia recente. Una zona oscura e buia nella quale le nostre istituzioni hanno rischiato di perdersi. Fiorucci e Guadagno le elencano, e ogni “capitolo” parla: “Il memoriale di Aldo Moro scomparso”, lo scandalo Italcasse, le banche e gli “affari” di Michele Sindona, la truffa dei petroli… Sono tutte vicende che vedono Pecorelli e la sua OP protagonista, nel senso che pubblicano e rendono note indicibili verità, che tanti avevano interesse a tenere nascoste.

Sullo sfondo, la eterna strategia della tensione a fini stabilizzatrici, gli anni di piombo, la vicenda Gladio, il terrorismo rosso e lo stragismo nero, le stragi e gli attentati della Cosa Nostra, i servizi che sempre si definiscono “deviati”, ma che erano ( e presumibilmente sono) appunto quelli che chiamati a svolgere lavori sporchi… Pecorelli e il suo delitto sono parte integrante, dicono i due autori, di «un melting- pot che ribolle per più di un ventennio. C’è tutto questo nella sintesi dei processi per l’omicidio di un giornalista scomodo». Il libro è stato presentato ad Assisi, nell’ambito della prima edizione di “Tra/ me Giallo Fest”, dicono gli osservatori che l’appuntamento è stato tra quelli che ha riscosso maggior successo. Indicativo, che a un evento dedicato al “giallo” abbia suscitato maggior interesse una storia vera che sembra inventata, rispetto a tante altre storie inventate che posson sembrare vere.