«Stasera finisce l’era dell’opposizione e inizia quella del governo del Movimento 5 Stelle». Luigi Di Maio sale sul palco allestito in Piazza del Popolo a Roma col sorriso più largo che riesce a esibire, ostentare. Il motivo? Lo rivela subito: ha letto dei sondaggi, freschissimi, che quotano il suo partito a percentuali entusiasmanti. Non può rivelare le cifre, per ovvi motivi, «ma vi posso dire che siamo a un passo dalla vittoria». Il suo popolo lo acclama. «Presiden- te», scandiscono in coro i manifestanti. I 5 Stelle navigano col vento in poppa, il capo politico si sente già a Palazzo Chigi, un obiettivo impensabile solo cinque anni fa. Eppure, il confronto col comizio di chiusura del 2013 sembra impietoso. Allora, in Piazza San Giovanni, a omaggiare Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio si era radunata una folla sterminata a ingrossare lo “Tsunami Tour”: un segnale fosco per i partiti tradizionali che fino a quel momento avevano dato troppo retta ai sondaggisti, convinti che i grillini non sarebbero andati oltre il 16 per cento. Oggi, invece, Piazza del Popolo è piena a metà. Poche bandiere e tanti cartelli gialli in mano, per una chiusura di campagna elettorale all’americana. La speranza è che il vecchio adagio di Pietro Nenni valga al contrario, trasformandosi in un più rassicurante: «Piazze vuote, urne piene». Ma Luigi Di Maio non bada ai vuoti tra un militante e l’altro. Quello che conta è prepararsi alla scalata di governo. «Al di là della percentuale, da quello che ho visto io il Movimento 5 stelle può vincere in tutti i collegi del sud e in molti del nord e raggiungere la maggioranza per governare», dice il leader pentastellato. «La differenza la fa anche un solo voto, dipende da una questione matematica. Il presunto centrosinistra è fuori combattimento. Stamattina Renzi ha detto: “sono disposto a farmi da parte”. È finita per loro», dice entusiasta, confermando l’analisi mattutina di Grilla che parlava di una corsa a due tra M5S e Forza Italia.

Di Maio è convinto che il 4 marzo gli italiani non saranno chiamati solo a sbarrare un simbolo sulla scheda, ma dovranno pronunciarsi come in un referendum: da un lato chi ha governato negli ultimi vent’anni, dall’altro il Movimento, il nuovo, l’onesto. «Sarà un referendum tra due idee di paese», spiega. «E noi un referendum l’abbiamo già vinto. Avremo una bella sorpresa anche domenica sera». L’aspirante premier rivendica la scelta di una squadra di governo prima del voto, una decisione dettata da una sola ragione: «Non abbiamo poltrone da spartire con nessuno. Loro invece devono contrattare i posti tra liste, correnti e capi bastone». E come nel 2013, Di Maio promette di riconsegnare le istituzioni ai cittadini, in nome della trasparenza e del buon governo. Evita di utilizzare l’espressione «apriremo il Parlamento come una scatola di tonno» che tanta fortuna portò cinque anni, ma poco ci manca. Poi il colpo di teatro. Il capo politico sventola alcuni foglietti spillati. Nove pagine che contengono il primo decreto legge del Consiglio dei ministri che verrà: un provvedimento in tre punti da approvare in una riunione «di venti minuti al massimo», garantisce. Al primo posto c’è un cult della retorica grillina: il dimezzamento dello stipendio parlamentare. Al secondo: l’abolizione dei vitalizi. Più contorto il terzo punto, in cui i grillini assicurano, un taglio a non meglio precisati sprechi che porterebbe nelle casse dello Stato ben 30 miliardi di euro. Denaro da reinvestire sulle famiglie, sui disoccupati e sui pensionati, a cui Di Maio ha anche promesso la revisione della legge Fornero.

Per convincere gli indecisi, però, serve lo sforzo di tutti. E il candidato premier vuole tutti al suo fianco. Parlano tutti i big: Virginia Raggi, Davide Casaleggio, Paola Taverna, Roberta Lombardi, Roberto Fico e Alessandro Di Battista, il più amato di tutti. Chiude il fondatore, che non rinuncia a spingere verso l’ultimo gradino la sua creatura, ma «senza rubare la scena a nessuno» : Beppe Grillo, con al collo un badge con su scritto “l’Elevato”. Tutti i partiti si sono sciolti, sono diventati movimenti - spiega «l’unico partito rimasto siamo noi». E poi esulta: «Abbiamo costretto tutti a inseguirci».