Una petizione con 70mila firme per far saltare il concerto a Saint- Nazaire, una manifestazione di piazza per bloccare l’esibizione di Montpellier, iniziative simili a Rouen, Dijon, Grenoble, e poi l’indignazione degli opinionisti i dubbi degli intellettuali, focosi dibattiti in tv, in radio e sulle colonne dei quotidiani. C’era da aspettarselo: il ritorno in scena di Bernard Cantat, che lo scorso dicembre ha presentato il suo nuovo album Amor Fati, ha scoperchiato il cosiddetto vaso di Pandora.

La questione è semplice: un assassino, anche se ha pagato il suo debito con la società, ha il diritto di ricoprire un ruolo pubblico?

Un artista femminicida può tornare in scena, blandire i suoi fan, rilasciare interviste ai giornali, esprimere pareri sull’immigrazione e la Brexit? Spesso sono gli stessi giornali che ospitano gli elzeviri scandalizzati dal «sinistro ritorno» del cantante, quasi a suggellarela morbosa schizofrenia del sistema mediatico, che dà l’impressione di offrire una ribalta a Cantat solo per poterlo far impallinare meglio dai suoi nemici. È bene in tal senso ricordare quanto accadde 15 anni fa, quando la brillante carriera del rocker si interrompe bruscamente in una stanza di hotel di Vilnius, la stessa dove perde la vita una giovane donna di 39 anni.

È il 27 luglio del 2003 l’ex cantante e leader dei Noir Désir uccide la compagna, l’attrice Marie Trintignant. Tutto nasce da un banale litigio di coppia, ma il climax è fatale. Uno scambio di battute polemiche e subito vola qualche parola grossa, il clima si surriscalda, i due avevano bevuto tantissimo, lui perde il controllo e la colpisce, uno, due tre, fino a 19 colpi tra calci e pugni secondo il referto del medico legale. Una violenza inaudita. Marie ha il naso fratturato e una grossa commozione celebrale, ma Cantat, stordito dall’alcol capisce la gravità della situazione solo la mattina successiva. Quando la porta in ospedale la situazione è ormai disperata, Marie è in coma irreversibile. Morirà cinque giorni dopo in una clinica di Parigi.

Cantat viene condannato a otto anni di prigione per omicidio preterintenzionale, sconta sei mesi nel carcere di Vilnius, il resto della pena a Tolosa dove, dopo cinque anni di detenzione, ottiene la semilibertà per buona condotta e per «la manifesta volontà di reinserimento sociale». Dal 2011 è un uomo libero. Ma la cronaca nera lo riagguanta pochi mesi dopo, quasi a sottolineare l’impossibilità di sottarsi a un tragico destino: l’ex moglie Krisztina Rády con la quale era tornato negli anni della prigionia si toglie la vita impiccandosi nel suo appartamento. Lascia una lettera di addio. L’autopsia conferma il suicidio e scagiona Cantat che al momento della morte di Ràdy era all’interno della casa. I giornali sentono l’odore del sangue e si buttano a capofitto sulla drammatica vicenda, alcuni ipotizzano una nuova, torbida storia di inemperanze e abusi domestici, ma sono solo suggestioni prive di riscontro. Il settimanale Le Point pubblica un articolo in cui «un membro anonimo dei Noir Desir» descrive i comportamenti violenti di Cantat e «l’omertà» che lo protegge fin dall’inizio della sua carriera. Peccato che il batterista, il chitarrista e il bassista del gruppo smentiscano categoricamente di aver mai parlato con un giornalista di Le Point.

Insomma, l’inchiesta era farlocca e Cantat decide di querelare il settimanale.

Nel frattempo i Noir Désir si sono sciolti, Cantat rientra in punta di piedi nell’ambiente musicale, partecipa come guest star ai lavori di altri artisti, spunta sul palco di qualche di teatro off, collabora ai testi e alle musiche di alcune pièces minori, in pochi lo notano e il rumore delle polemiche rimane ancora un brusìo lontano, a misura d’uomo.

È solo lo scorso autunno, con l’annuncio dell’uscita di Amor Fati, il suo primo lavoro da solista da quando è in libertà, che il suo nome torna a movi- mentare il dibattito. Non è questione di diritto dicono molti suoi detrattori, ma di «opportunità», di sensibilità nei confronti di chi amava Marie, ma anche e soprattutto verso il genere femminile nella sua totalità: «Concedere la scena a Cantat equivale a minimizzare e a legittimare la violenza nei confronti delle donne», si legge nella petizione apparsa su change. org. Qualche settimana prima dell’uscita dell’album, Les Inrockuttibles, la rivista di musica e tendenza più venduta in Francia, aveva consacrato la copertina all’artista, all’interno un lungo reportage sul suo ritorno corredato da portfolio fotografico. Apparso in edicola nel furore iconoclasta del caso Weinstein, il numero degli Inrock provoca una vera e propria bufera, una parte del movimento femminista insorge contro i media che puntano i riflettori sul cantante, mentre dovrebbero trattarlo soltanto come un assassino e relegarlo in un cono d’ombra. Molti intellettuali ritengono giustificata questa posizione di censura, mentre l’indignazione lievita nel web e nei meandri dei socialnetwork dove si moltiplicano le iniziative per boicottare i circa 40 concerti previsti fino alla metà di agosto.

Parliamoci chiaro, Cantat non fa nulla per risultare simpatico: è supponente, vittimista, narcisista, sempre sulla difensiva e a sentirlo parlare sembra tutto tranne che una persona pacificata con se stessa e con il mondo. Ma essere antipatici e irrisolti non è una colpa. Se invece del cantante rock avesse fatto l’idraulico, il commercialista o l’assicuratore nessuno avrebbe obiettato sul suo reintegro nella società e avrebbe potuto continuare a svolgere il suo mestiere senza polemiche, il fatto che fosse una star adorata da milioni di fan è qualcosa che non gli si può perdonare,.

Come spesso accade in questi casi la famiglia Trintignant non si è espressa, ritenendo che il pudore e il silenzio siano una misura minima di civiltà per non titillare un dolore che per loro non avrà maifine. Anche perché il modo con cui i media sciacalli tirano continuamente in ballo il nome di Marie ne offende il ricordo molto di più di mille concerti.