«Il reato di aiuto al suicidio non è più in sintonia col nostro comune sentire e nemmeno con la Costituzione». Michele Ainis, ordinario di diritto pubblico all’università di Roma Tre ed editorialista di Repubblica, commenta positivamente la scelta della Corte d’Assise di Milano di trasmettere gli atti del processo Cappato alla Consulta: «In questo modo la sentenza dei giudici costituzionali avrà valore generale e assicurerà la certezza del diritto. Sarà una sentenza politica? Ogni questione di legittimità costituzionale lo è».

Professore, che cosa chiedono i giudici milanesi alla Corte Costituzionale?

Di dirimere il dubbio sulla legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, nella parte in cui prevede l’aiuto al suicidio. In linea generale, l’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale va motivata su due punti: la rilevanza della questione per la definizione del processo e la sua non manifesta infondatezza. Ora, la Consulta è chiamata a sciogliere il dubbio con una pronuncia che vale erga omnes, cioè con valore generale all’interno dell’ordinamento.

Il pm, in via principale, aveva chiesto l’assoluzione di Marco Cappato e solo in subordine la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale. La Corte d’Assise ha invece deciso di investire la Consulta.

Io credo si tratti di un elemento positivo. Qualora Cappato fosse stato assolto, la pronuncia sarebbe stata possibile con un’interpretazione molto innovativa dell’articolo 580 del codice penale, ma avrebbe avuto valore solo per quel giudizio. Un domani un altro giudice avrebbe potuto pensarla diversamente e pronunciarsi per la colpevolezza di un diverso imputato dello stesso reato. Invece la sentenza della Corte Costituzionale - giudice di unica istanza per le questioni di legittimità costituzionale - avrà valore generale, assicurando quindi la certezza del diritto in una materia che sta diventando progressivamente sempre più incerta.

Ragionando del reato di aiuto al suicidio, lei ritiene esistano profili di incostituzionalità?

In linea generale, la giurisprudenza costituzionale è sempre piuttosto cauta quando entra nel campo del diritto penale, perché esiste una discrezionalità legislativa nella determinazione di che cosa sia o meno reato. In questo caso specifico, tuttavia, mi sembra più che evidente come esista un’irrazionalità di fondo della disciplina dell’articolo 580.

Che cosa glielo fa dire?

Se il nostro ordinamento contemplasse la tutela asso- luta della vita, allora dovrebbe essere punito anche il tentato suicidio. Invece, il tentato suicidio non è reato, mentre lo è l’aiuto al suicidio altrui. Il nostro ordinamento tutela il valore della vita in modo non assoluto e ciò produce l’effetto di irrazionalità a cui mi riferisco. Detta in modo chiaro: se stai bene ti puoi uccidere, se invece sei malato come Welby o dj Fabo e hai bisogno di un amico che per pietà ti aiuti perché non sei in grado di toglierti la vita da solo, questo è reato.

Tradotto in principi costituzionali, cosa comporta?

Quando si valuta il rispetto del principio di eguaglianza garantito dall’articolo 3 della Costituzione, si evoca il cosiddetto tertium comparationis: per individuare se si è di fronte a un caso di discriminazione, bisogna andare a cercare una fattispecie analoga e disciplinata in modo opposto. Nel nostro caso, è appunto il tentato suicidio: questo non è non è punito dall’ordinamento, mentre l’aiuto al suicidio sì.

Questo ragionamento potrebbe investire anche la legge sul testamento biologico appena approvata?

Quella legge produce un ulteriore elemento di incertezza, perché il testamento biologico garantisce in modo superiore rispetto al passato l’autodeterminazione dei singoli sulla vita e sulla morte. Come si concilia questa novità legislativa con il divieto previsto dal codice penale? Ecco un nuovo profilo di irrazionalità.

Siamo di fronte a un nuovo caso in cui i giudici costituzionali sono chiamati a intervenire su una questione controversa dal punto di vista politico e a colmare un vuoto legislativo. E’ un’ingerenza indebita?

Ma ogni questione di legittimità costituzionale è politica. La Costituzione, che è il parametro secondo il quale i giudici decidono, è il più politico tra i documenti normativi perchè vorrebbe, e non sempre ci riesce, porre delle regole di principio al legislatore e alla politica. Proprio per questo, del resto, la Corte Costituzionale ha una composizione mista: cinque giudici sono scelti dalle magistrature superiori, ma altri cinque sono votati dal Parlamento, quindi sono dei giuristi con una sensibilità politica. Altri cinque, infine, sono scelti dal Presidente della Repubblica, che è un organo politico. La Corte Costituzionale fa sempre politica, anche suo malgrado.

Sarebbe forse stato più coerente intervenire in via legislativa per disciplinare il tema del suicidio assistito e dell’eutanasia?

La legge italiana, però, è sempre un po’ in ritardo rispetto al sentire del Paese. Un caso celebre, per esempio, riguardò il reato di adulterio femminile: nel 1969 fu la Corte Costituzionale ad eliminarlo perché in contrasto con il principio di eguaglianza. Anche in quel caso la Consulta, a causa dell’inerzia del legislatore, irruppe nella vita pubblica per risolvere una questione legislativa, che era al contempo una questione etica.

Lei ritiene che la Corte deciderà per l’incostituzionalità del reato di aiuto al suicidio?

Io penso, e non da oggi, che questo reato non sia più in sintonia con il nostro comune sentire e nemmeno con la Costituzione. Il reato di aiuto al suicidio è residuo del codice Rocco e appartiene ad una stagione politica - quella fascista-, sociale e culturale ormai passata. Inoltre, all’articolo 32 la Costituzione difende il diritto alla salute: il diritto, non il dovere, tanto è vero che si possono rifiutare i trattamenti sanitari. Ecco, credo che nel caso dell’articolo 580 ci sia bisogno di un aggiornamento, come del resto in altre pagine del nostro codice penale, per esempio quelle in cui si castigano i delitti d’opinione.