Sembra che alle prossime elezioni non saranno candidati, nelle varie liste, magistrati. O meglio, vi dovrebbe essere solo Angelo Raffaele Mascolo, Gip di Treviso, nella lista Con Noi con l’Italia, la gamba centrista della coalizione di centro destra. Liana Milella, cronista sempre molto attenta alle vicende giudiziarie, ha analizzato su Repubblica la situazione nei vari partiti ed ha rilevato che le prossime elezioni segnano un addio al fenomeno delle toghe in politica. Esse erano ben 18 a fine 2012 e, tra mancati rinnovi e mancate candidature, si ridurranno, nel prossimo parlamento, ad una o due. Anche il Movimento Cinque Stelle, per il quale si dava per scontato che avrebbe inserito nella compagine governativa alcune toghe di rilievo, ha escluso formalmente che Di Matteo, Davigo o Cantone faranno parte del loro eventuale governo.

La presenza dei magistrati nelle liste elettorali aveva, evidentemente, un valore simbolico ed una funzione attrattiva del consenso. Soggetti che non avevano svolto mai una attività politica in senso stretto erano candidati in ragione del consenso popolare che avrebbero potuto far confluire sulla lista, al pari di quel consenso che si spera di ottenere candidando personaggi dello spettacolo o protagonisti di vicende importanti della società civile. La candidatura dei magistrati, in particolare, intendeva segnalare agli elettori una coerenza del partito con il principio di legalità e la condivisione del valore della giustizia come valore supremo. Si tratta di una deriva che aveva avuto alcune prime timide manifestazioni nel Pci dagli anni 70 in poi e che poi era esplosa all’indomani di Tangentopoli. La presenza dei magistrati era volta, perciò, a garantire l’integrità morale della lista ed a segnare un distacco profondo dal mondo corrotto che la attività di questi ultimi era riuscita a debellare. Evidentemente, questo tipo di messaggio non paga più. Le motivazioni sono probabilmente due.

La prima sta certamente nel fatto che anche la giustizia ha perso credibilità. Gli scandali grandi e piccoli che hanno colpito alcune vicende giudiziarie, la costante ed impunita violazione del segreto istruttorio, la presenza strumentale e massiccia sui media, la evidente discutibilità di alcune decisioni, sono tutti fattori che hanno desacralizzato completamente il ruolo del giudice e messo in evidenza l’inadeguatezza degli interpreti di quel ruolo rispetto al modello ideale che legittimava la considerazione dei loro nomi come aggregatori di consenso. Il mondo giustizia non è più ritenuto come il luogo nel quale far rinascere il paese e superare la sua crisi anche morale, ma come partecipe esso stesso di quella crisi e niente affatto dotato di una maggiore nobiltà. Anzi, la presa di coscienza di quegli eccessi del mondo giudiziario, che vanno sotto il nome di giustizialismo, ha anche determinato una crescita lenta, ma progressiva ed irreversibile di rifiuto di quella prospettiva. La seconda sta, probabilmente, nella osservazione che la pretesa rivoluzione morale che avrebbe legittimato la rivoluzione giudiziaria degli anni 90, che va sotto il nome di Mani Pulite, ha prodotto, secondo molti, più danni che vantaggi. Una intera classe politica, certamente con i suoi difetti, ma capace di avere una visione strategica, è stata distrutta e sostituita da una classe politica debole, con ideali modesti e priva di visione strategica. Uno degli effetti è che, se prima degli anni 90 era l’economia ad essere subordinata alla politica, oggi è la politica ad essere subordinata all’economia. Illuminanti sono le rivelazioni fatte dall’ingegner De Benedetti circa la sua influenza sulle scelte del Governo.

Ed, allora, la mancanza di toghe nelle liste elettorali va salutata come un segnale positivo. Il tentativo, finalmente, della politica di ritrovare nelle proprie idee e nella propria visione strategica il motore per l’aggregazione del consenso. E’, perciò, il segnale di una salutare volontà di rinascita della politica.