Mi dicono che Nicola Mancino non sta bene. Vive chiuso in casa, non vuol veder nessuno, è molto malinconico. Il modo nel quale lo hanno messo in mezzo, senza motivo, nel processo Stato- Mafia, non gli è andato giù. Sente l’ingiustizia, l’accanimento immotivato: non sa spiegarseli.

Mancino ha 86 anni, li ha spesi quasi tutti per la politica. È difficile, oggi, far capire a un ragazzo cosa vuol dire questa espressione: «spesi per la politica». Ma c’è stato un periodo, nella storia d’Italia, nel quale la politica era una cosa molto seria, un mestieraccio ( come diceva ieri Giuseppe De Rita su questo giornale) che richiedeva passione, intelligenza, strategia, impegno, rapporto con le masse. Noi di sinistra dicevamo così: «con le masse». Chi voleva far politica doveva “spenderci” tutte le energie che aveva. E doveva studiare, applicarsi, conoscere, parlare, stare a sentire.

Ho conosciuto Nicola Mancino nei primissimi anni 80. Lui era il vice presidente dei senatori della Dc. Era già una autorità. Io un giovane cronista politico dell’Unità. Fronti opposti. Mi ricordo ancora di un articolo molto critico che scrissi su di lui ( forse un po’ offensivo) e di un biglietto di protesta che mi mandò: era molto seccato ma non era aggressivo, o minaccioso, e accettava di discutere e di far polemica mettendosi sullo stesso piano di un ragazzino come me.

Devo dire che oggi mi dispiace di avere scritto quell’articolo con la baldanza sfacciata e spavalda dei giovani. Credo che nella discussione avessi ragione io, ma alle volte, magari, prima di sputare addosso alla gente bisognerebbe conoscere meglio come stanno le cose.

Mancino è stato un grande democristiano. Era uno dei leader del partito in Campania. E uno dei dirigenti nazionali nella sua corrente, corrente gloriosa e forte della sinistra Dc. Si chiamava La Base. L’avevano fondata Dossetti e Marcora, negli anni cinquanta, e avevano allevato una covata di giovanotti, come De Mita, Galloni, Granelli e lo stesso Mancino. Poi Dossetti lasciò la politica ma la corrente di Base andò avanti e fu un pilastro ben piantato del centrosinistra. Moro era Moro, certo, era su un altro pianeta. Ma sul piano della politica organizzata e anche della ricerca teorica, la Base fu essenziale - insieme alla corrente di Donat Cattin - nella svolta riformista che l’Italia visse negli anni sessanta e settanta.

Mancino era lì. Spesso finiva nella bufera delle polemiche. Ma resisteva bene. Fu accusato tante volte soprattutto del «reato di clientelismo». Lo dico con cognizione di causa, perché noi dell’Unità eravamo tra gli accusatori più tenaci. Avevamo ragione? Un po’ sì. Un po’ però avevano ragione loro. È vero che in quegli anni il clientelismo ( o l’assistenzialismo) democristiano fu uno dei motori della politica italiana. Ma il clientelismo non era un semplice fenomeno di corruzione. Era un meccanismo molto complicato che permise una grandiosa redistribuzione del lavoro, dell’assistenza, della ricchezza e dello stato sociale. L’Italia in quegli anni crebbe in tempi velocissimi, e la crescita non comportò un aumento, ma una riduzione drastica delle diseguaglianze sociali. La Dc era al centro di questo fenomeno. Luigi Pintor, grande giornalista comunista, una volta fece sul manifesto un titolo che diceva più o meno così: «Non vogliamo morire democristiani». Pintor morì nel 2003. Al governo c’era Berlusconi: chissà, magari lui in fin dei conti avrebbe preferito morire democristiano… Mancino è stato uno degli uomini forti della Democrazia Cristiana. Da parlamentare o da ministro ha accompagnato la crescita dell’Italia durante tutti gli anni della Prima Repubblica.

Poi a un certo punto due giovani Pm di Palermo, che si erano convinti che tra il 1992 e il 1994 ci fu una trattativa tra Stato e Mafia, hanno deciso di puntare i loro strali contro Mancino, perché Mancino all’epoca era ministro dell’Interno e perchè alla loro costruzione accusatoria faceva comodo immaginare un ministro dell’Interno favorevole alla trattativa. Anzi, immaginare questa circostanza era indispensabile, altrimenti il castello dell’accusa andava giù. E su cosa si basava tutta l’accusa? Sul racconto del figlio di Vito Ciancimino ( ex sindaco dc di Palermo, legato alla mafia), il quale figlio di Ciancimino poi fu condannato tante volte per calunnia.

Non avevano nient’altro in mano i Pm. E allora sostennero che il socialista Amato, nel 92, cacciò il dc Vincenzo Scotti dal ministero dell’interno perché lo riteneva contrario alla trattativa, e mise al suo posto il morbido Mancino. E imputarono a De Mita questa scelta. il povero de Mita - che all’epoca era il segretario della Dc, spiegò ai Pm ( che conoscevano poco poco la storia d’Italia di quegli anni, forse perché erano troppo giovani) che nel 1992, esplosa Tangentopoli, la Dc aveva deciso di sancire l’incompatibilità tra ruolo di ministro e mandato parlamentare. Siccome Scotti voleva restare parlamentare, non si poteva farlo ministro. E fu indicato Mancino. Tutto qui. Del resto tutta la biografia di mancino depone per il suo impegno nella lotta alla mafia.

Poi, negli anni successivi, Scotti e Martelli ( all’epoca ministro della Giustizia) sollevarono molte polemiche contro Mancino, ma questo rientra nella fisiologia delle invidie e dei rancori in politica. Quello che lascia un po’ sgomenti è che su questa panna montata è stata costruita l’accusa di falsa testimonianza che tiene ancora Nicola Mancino dentro un processo senza capo né coda, dove non si sa più nemmeno chi è accusato e di che cosa, e dove i Pm svolgono requisitorie che in realtà smontano i teoremi accusatori.

Si capisce bene che lui che ne soffre. Ne soffre anche la Storia, strattonata da tutte le parti, e ne soffre la sostanza della democrazia. Fa un po’ rabbia che dei Pm un tantino sprovveduti, nella loro foga di provare teoremi fantasiosi e di scoprire complotti inconfessabili, pestino l’acqua nel mortaio e buttino fango sulla vita di uno dei protagonisti della democrazia italiana.