GLI USA NON SONO FOLLI E LE PRETESE ISRAELIANE SONO FONDATE

Dal Vaticano a Bruxelles, da Riad a Teheran un vituperio unanime si abbatte sul presidente degli Stati Uniti: cosa viene in mente a ' The Don'? Quale pazzia lo spinge a voler incendiare l’area più esplosiva del mondo, il Medio Oriente, rompendo lo status quo sul nodo più aggrovigliato dell’aggrovigliatissima questione israelo- palestinese: lo status di Gerusalemme?

Che il passo di Washington verso il pieno riconoscimento dell’annessione di Gerusalemme sia un azzardo è in effetti indiscutibile. Che si tratti di una mossa inspiegabile e assurda invece è quanto meno dubbio. La questione di Gerusalemme, da sola, rappresenta il 50% e probabilmente anche qualcosa in più del problema israelo- palestinese. E’ sullo scoglio di Gerusalemme più che su ogni altro che si è arenata nel 2000 la trattativa di Camp David, che sembrava a un passo dal successo. Non c’è possibilità reale di risolvere il conflitto senza aver prima definito in un modo o nell’altro la questione di Gerusalemme. E’ possibile che Trump e Kushner, il genero ebreo integralista delegato ad affrontare una faccenda che si trascina da decenni senza spiragli di luce, sperino, o si illudano, che chiudere con un atto di forza il contenzioso su Gerusalemme permetta poi, dopo una fase di inevitabile riacutizzazione, di raggiungere un compromesso complessivo.

Prima di tutto va chiarito che, nonostante l’ipocrita levata di scudi internazionale, le pretese di Israele su Gerusalemme non sono affatto peregrine o pretestuose. La città, in realtà la Città Vecchia, è certamente sacra per tutte le tre religioni monoteiste, ma altrettanto certamente lo è più per gli ebrei che per i cristiani o i musulmani. Il cuore del cattolicesimo è a Roma, oltreTevere, quello dell’Islam è alla Mecca. Quello del giudaismo è al Kotel, al centro della Città Vecchia. Gli ebrei, anche nei due millenni di diaspora non hanno mai abbandonato Gerusalemme, dove sono sempre rimasti la maggioranza della popolazione. La formula che ha permesso all’ebraismo di sopravvivere a un esilio millenario, «L’anno prossimo a Gerusalemme» andrebbe considerata seriamente.

Non si tratta peraltro solo di afflati mistici e religiosi. Se si accetta l’idea che ridare vita allo Stato di Israele sarebbe stato impossibile senza il richiamo emotivo di quella specifica terra, come dovette concludere il sionismo dopo aver considerato inizialmente l’ipotesi di uno Stato ebraico lontano dalla Palestina, la presenza di Gerusalemme capitale si rivela come altrettanto imprescindibile. Israele senza Gerusalemme sarebbe come la Francia senza Parigi.

La libertà di culto, va da sé, andrebbe garantita per tutti e senza la minima distinzione. Difficile negare però che oggi questa libertà sia garantita a tutti, a differenza di quanto avvenne nei quasi vent’anni di occupazione araba della Città Vecchia, tra il 1949 e il 1967, quando agli ebrei fu vietato l’accesso al Muro Occidentale, le antiche sinagoghe distrutte e gli ebrei della Città Vecchia cacciati dalle loro abitazioni. Fu il ministro della Difesa Moshe Dayan, immediatamente dopo la conquista della Città Vecchia nel giugno 1967, a chiarire subito e una volta per tutte che la Spianata delle Moschee, l’area sacra per l’islam, sarebbe stata rispettata in tutto e per tutto, nonostante le pressioni di qualche rabbino tra cui quello dell’esercito.

Il ritorno ai confini del 1967 chiesto dai palestinesi, cioè il ritorno a una Città Vecchia sotto controllo palestinese, è di fatto fuori discussione. Ma perché opporsi al controllo internazionale sulla Città Vecchia, magari lasciando Gerusalemme ovest capitale dello Stato ebraico e Gerusalemme Est di quello palestinese, quando ci sarà? Sulla carta la formula è perfetta, solo che permane la diffidenza israeliana nei confronti delle istituzioni internazionali come l’Onu o dell’Europa, puntualmente dimostratesi di parte. Giusto per fare un esempio, gli scavi archeologici intorno al Muro occidentale, sotto il Monte del Tempio oggi Spianata delle Moschee, non sarebbero probabilmente stati possibili sotto il controllo internazionale della Città Vecchia.

Di fatto l’unica alternativa al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele è, come dice infatti papa Francesco, «il mantenimento dello status quo». Solo che lo status quo è a propria volta illusorio. Pensare che si tratti di una specie di fermo immagine che congela la situazione in attesa che diventino possibili sviluppi positivi è un inganno. Nello status quo la situazione si modifica, più lentamente e meno percettibilmente ma radicalmente. Oggi la formula ' due popoli due Stati', del tutto praticabile ai tempi di Camp David, è di fatto già quasi impossibile. Prolungare lo status quo vuol dire in realtà rendere definitivamente irresolubile la situazione, come in realtà si augurano le fazioni oltranziste sia israeliane che palestinesi.