L’Obraz era un piccolo cinema di Milano. Una sala con pochi posti, sedie dure e scomode. Ci si poteva andare il pomeriggio e restare fino a notte fonda. Se arrivavi in ritardo, dovevi sederti in prima fila: il collo storto, il corpo rattrappito, le gambe chissà dove. Ma all’Obraz, che vuol dire “immagine” in russo e per Ejzenštejn è la magia che unisce tempo e spazio, ti sentivi perfetto: potevi stare lì per sempre e vederti dal film più bello della storia al più brutto di sempre.

Era il cinema, era l’amore per il cinema. Christian Metz, il semiologo che più di altri ha analizzato il rapporto tra la settima arte e la psicoanalisi, teorizzava la sala del cinema come un ritorno al ventre materno. Una sorta di seconda nascita: il buio che ti circonda, la luce in fondo alla sala, le immagini che pur riproducendo la realtà sono sorelle dei sogni. In quel piccolo cinema, che ora non c’è più, ho passato settimane, mesi, anni. Non amavo solo il cinema, amavo stare al cinema, in quel cinema, in quel buio. ( Chissà se quel ragazzo, che si sedeva vicino a me, anche lui fantasticava che qualcosa ci unisse, che in fondo lo stare là, anche se ognuno per conto suo, fosse un modo per stare insieme. Non lo ho più visto, ma con lui ho passato più tempo che con tanti altri uomini).

Oggi quella magia, non c’è più. Quando entri nei cinema sei assediato dai rumori, dalle luci, dalla pubblicità. «Angela - mi disse una volta Pietro Ingrao quando andammo al cinema insieme - che cosa sta succedendo?». Me lo disse spaventato da un suono che non era cinema, non era più cinema. Non è un caso che i film in sala siano sempre meno gettonati ( meno trenta per cento di biglietti nell’ultima stagione) mentre i festival - tutti i festival, anche quelli più piccoli - godano di grande successo di pubblico.

I festival ricreano quell’atmosfera che la sala tradizionale ha perso: costruiscono un evento, una festa, ti fanno rivivere il cinema come in una sala d’essai. Ma c’è anche un altro modo per riprovare quella fusione con l’immagine e con la storia che il cinema racconta: è vedere le serie tv. Tu, la tua copertina di Snoopy, lo schermo che ti ingloba, piccolo o grande che sia, e finalmente riscatta la magia. L’identificazione spezzata dai sistemi Dolby, che ti sparano le voci dentro le orecchie senza alcuna poesia, si rifonda in quel rapporto duale tra te e il film, tra te e una storia, che nella sua serialità diventa ancora più tua. Diventa te.

E così che, indipendemente dal titolo, la serie tv ti permette di rivivere come se fossi davanti alle prime immagini della storia del cinema: il treno dei fratelli Lumière che passa e sembra dover travalicare i margini dello schermo travolgendo anche te.

E’ vero: guardare le serie tv può creare dipendenza. In questo momento ne sto vedendo sei o sette contemporaneamente. Ma per chi è stata cinefila, la bulimia di titoli, registi, stili non è una novità. È quasi impossibile amare il cinema e restare impassibili. Se hai visto Il posto della fragole, devi vedere tutto Ingmar Bergam. Se ami il cinema, non puoi non applaudire alla Corazzata Potemkin e spararti tutto il cinema russo. Il cinefilo non si accontenta. La sua bulimia non è solo fondata sulla quantità.

La dipendenza è anche per lo stile, la sperimentazione, la capacità di sondare sempre nuove visioni. È quella magia che fa nascere il cinema, ancora prima che come arte, come fenomeno da circo. È Méliès mago, ancora prima che regista. E anche qui ci sono poche chance: oggi la sperimentazione passa non nel cinema pensato per il grande schermo, ma nelle serie tv. Basti pensare a un capolavoro come la terza serie di Twin Peaks di David Lynch: è il cinema alla sua assoluta potenza. È immagine, immaginario, delirio puro di una mente che scuote la narrazione tradizionale facendola implodere in visioni che non hanno più niente di realistico. Lì si sperimenta, si gioca. E si crea immaginario condiviso.

Sempre meno ci sono film che riescano a costruire un linguaggio comune, un modo di vedere condiviso. Ma chi ha visto Breaking bad ha sperimentato insieme ad altre migliaia e migliaia persone nel mondo cosa voglia dire superare il confine tra il bene e il male, come la linea d’ombra della vita sia labile, incerta, indefinibile. E come ogni persona racchiuda in sé entrambi gli aspetti. La serialità crea attesa, identificazione e anche suspence: le serie tv sono i nostri feuilleton, da consumare come cinefili o come lettori de I fratelli Karamazov.