Gli indizi sono molti. Nelle ultime elezioni della Associazione nazionale magistrati Davigo ha dato vita, partendo dal nulla, a una corrente, che in sede elettorale ha avuto notevole successo, in virtù di un programma che, ridotto all’osso, si sostanziava nella richiesta di una gestione più corretta e trasparente dei poteri del Consiglio superiore della magistratura. Nel mese di agosto Andrea Mirenda, presidente della I sezione civile del Tribunale di Verona, rinunciava a questa carica per diventare giudice di sorveglianza presso lo stesso tribunale “per andare ad occuparmi degli ultimi della terra da ultimo dei magistrati”, denunciando un sistema giudiziario improntato ad un carrierismo spietato, arbitrario e lottizzatorio. La copertura del posto delicatissimo di procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli ha richiesto addirittura un anno per la decisone, nonostante l’importanza dell’ufficio e la palese incongruen- za della sua mancata copertura pur in presenza di candidati di grande spessore professionale e di riconosciuto prestigio. Da ultimo Maria Giovanna Romeo, da cinque anni presidente di sezione della Corte di Appello di Caltanissetta, rinuncia alla toga denunciando che “le scelte del Csm rispondono in primo luogo a logiche di lottizzazione da perfetto manuale Cencelli della Prima Repubblica”.

Gli episodi sopra riportati sono solo quelli che hanno avuto una qualche forma di diffusione perché segnalati all’attenzione del grande pubblico, in quanto riportati dalla stampa. In realtà, nell’ordine giudiziario il sentimento di una gestione, da parte del Consiglio superiore della magistratura improntata a criteri clientelari e correntisti è estremamente diffusa.

Si tratta di una situazione che presenta aspetti di pericolosità molto maggiori di quanto potrebbe sembrare a prima vista. In gioco non è affatto un mero ulteriore degrado delle istituzioni su cui si fonda la democrazia italiana. In gioco è la credibilità di uno degli ultimi presidi della democrazia.

La magistratura italiana è oggetto di molte critiche, ed alcune anche condivisibili. Ma vi è un punto sul quale il riconoscimento è unanime, anche da parte dei critici più severi. Il giudice italiano è indipendente, sia nella forma e sia nella sostanza. Quando si ha occasione di raffrontare l’esperienza giudiziaria italiana con quella di altri paesi, emerge con chiarezza il privilegio di cui godono i cittadini italiani per avere dei giudici che non sono assoggettati a fonti di potere esterne. Il che significa che davanti al giudice italiano può essere portata, senza remore, qualsiasi denuncia, anche nei confronti dell’uomo più potente, e che nella controversia contro un qualsiasi potentato, si può far fare affidamento su di un giudice non condizionato da tale potenza. Questo è possibile proprio perché vi è un organo, il Consiglio superiore della magistratura, istituzionalmente preposto a tutelare, contro qualsiasi intromissione ed attacco, l’indipendenza della magistratura.

Tuttavia, se il principio della indipendenza viene ad essere leso proprio dall’organismo costituzionalmente demandato a attuarlo, se alla logica del merito si sostituisce quella dell’appartenenza e del favore personale, il rischio è che vi sia una erosione di quella cultura della indipendenza, che ha costituito sino ad ora uno dei valori più condivisibili del patrimonio gelosamente difeso dalla magistratura italiana. L’attuale Consiglio superiore della magistratura è prossimo al termine del suo mandato. Sarà capace di raddrizzare la scadente immagine che sinora ha dato di sè?