«Weinstein, non meriti neanche una pallottola, meriti una lenta agonia». Se non l’avesse detto l’attrice Uma Thurman la frase sarebbe suonata come la solita, e terribile, invettiva di chi, invece di invocare lo Stato di diritto, pensa alle vendette personali. Ma questa volta, oltre a questo aspetto che in parte si può riscontrare, c’è qualcosa in più: e quel qualcosa si chiama cinema, si chiama immaginario. Uma Thurman ha infatti accompagnato il suo tweet spietato con la foto da protagonista del film Kill Bill: una foto in cui è arrabbiata, furiosa e pronta a tutto. Nel cinema quel volto si è visto poche volte. Le donne, anche quelle più forti, al cinema come in letteratura devono nella maggior parte dei casi essere buone, oneste, gentili. In Kill Bill di Quentin Tarantino la narrazione si ribalta. La protagonista è incinta, sta per sposarsi e il suo ex boss, per vendicarsi che lei lo ha lasciato, uccide lo sposo e tenta di uccidere lei. La Sposa si salva, ma il bimbo no. Il resto è ormai leggenda, con Uma Thurman che riscatta anni, se non secoli di buonismo: si prepara e poi uccide. Del cosiddetto gentil sesso resta poco o nulla: resta una donna, le sue ferite, la sua crudeltà. La vendetta è compiuta, soprattutto contro quell’immaginario che relegava le donne a figure angelicate, passive, capaci di perdonare. Eh no, questa volta no. «Uccidere Bill» è l’obiettivo, il perdono non esiste. Il successo di Kill Bill ( uno e due) dipende soprattutto da questo fatto inedito: migliaia di donne nel mondo si sono potute identificare in quella vendetta, hanno potuto vivere una parte che a loro era negata. Non vuol dire con questo sperare nell’emulazione, ma nella contaminazione: far passare uno spirito guerriero anche nella quotidianità.

Prima di Tarantino ci aveva pensato Russ Meyer a giocare con gli stereotipi legati all’immagine della donna, facendoli zompare per aria. Il suo trio di Pussycat ( Faster, Pussycat! Kill! Kill!) vanno anche loro in giro ad uccidere, sono sexy ma crudelissime e chi cerca di intralciarle ha poche speranze.

Negli ultimi anni la figura che forse meglio incarna la guerriera vendicatrice è quella di Lisbeth Salander la protagonista della trilogia Millennium di Stieg Larsson. La giovanissima subisce una violenza sessuale.

Non denuncia. Non si deprime. Si vendica. E lo fa, senza uccidere, ma in modo indelebile tatuando sul corpo del suo stupratore: sei un porco.

Ma Salander non rappresenta tanto lo spirito di vendetta, rappresenta soprattutto la libertà. Per scrivere questo personaggio, il compianto Larsson si è ispirato a un’altra grande figura dell’immaginario mondiale: Pippi Calzelunghe. È Pippi ai tempi di internet e del ricomparire dei movimenti neonazisti. Ma del personaggio, che ha fatto sognare milioni di bambine di molte generazioni in tutto il mondo, conserva la determinazione, l’autonomia, il coraggio.

Perché alla fine di questo parliamo. Non di vendicarsi, non di mettere in discussione lo Stato di diritto. Ma di non accettare più ruoli e stereotipi che anche il cinema ha continuato a veicolare. Si tratta insomma di scegliere se fare come Thelma e Louise, che pure ci provano, ma poi si arrendono lanciandosi nel vuoto, oppure di resistere. E di non soccombere.

Oggi questa figura inizia a girare liberamente per le serie tv: si muove nel mondo dell’immaginario e strizza l’occhio alle spettatrici che si rispecchiano senza forse l’emozione degli inizi. E così anche nella serie Sense 8 ( su Netflix) Sun, vittima di una trappola del fratello che ha anche ucciso il padre, non demorde, fugge dalla prigione e combatte. La strada di un immaginario più variegato è per fortuna in discesa.