Nel suo studio si affastellano fascicoli sgualciti, vecchie edizioni di giornali e un’infinità di libri. Dalle librerie spuntano riconoscimenti e targhe come quella della Lid, la Lega italiana per il divorzio. Poche fotografie alle pareti interamente occupate da scaffali, tra i quali è appeso un diploma di laurea in carta pergamena, intestato con il nome dell’allora Re d’Italia, Vittorio Emanuele III. Bruno Segre ha festeggiato quest’anno il suo novantanovesimo compleanno, è nato il 4 settembre 1918 ed è stato avvocato, giornalista e partigiano. Della sua vita ricorda anche i dettagli e cita con scioltezza indirizzi e numeri civici teatro di ogni avvenimento importante, sempre intrecciato in modo inestricabile con la sua Torino.

Avvocato, ha la scrivania così colma di carte. E’ ancora molto indaffarato?

Passo le giornate a lavorare al mio giornale, L’Incontro, che esce ininterrottamente dal 1949. L’avvocato ormai non lo faccio più, così leggo e scrivo moltissimo.

Ha festeggiato quest’ultimo compleanno a cifra doppia?

Sono stato festeggiato dai colleghi giornalisti con un bel banchetto all’Ordine. A dirle la verità mi sono chiesto la ragione di questo brindisi, proprio per i 99 anni. Dubitano forse che arrivi a 100?

Qual è il suo primo ricordo?

Ho vividamente impressa la luce di una lampada a gas e un tizio che l’accende con una lunga pertica. Era il 1919 o forse il 1920 e la mia famiglia viveva all’angolo di via Goito, io osservavo fuori dalla finestra quest’uomo che alla sera accendeva la lampada e alla mattina tornava a spegnerla.

Che Torino era?

La città era molto diversa da quella attuale, anzitutto perchè c’erano poche automobili e molte carrozze. Quando ero bambino ci trasferimmo in una zona della città che oggi si definirebbe poco frequentabile. Era un covo di disperati, che uscivano di casa al mattino presto portando con loro una gavettina col pranzo, che poi consumavano stendendo a terra un giornale, nell’intervallo del lavoro. Nel quartiere c’erano una quindicina di case di piacere e una era proprio vicino alla mia. Una volta una giovane ebrea che cercava rifugio da noi sbagliò portone e le aprì la maitresse che le disse: «Qui non c’è nessun Segre, questa è una casa di artiste».

Che famiglia era, la sua?

Mio padre faceva l’assicuratore, mia madre la sarta. Lui era ebreo e lei cattolica ma entrambi non erano osservanti, così noi fratelli crescemmo senza alcun condizionamento religioso.

Lei iniziò le scuole durante il Ventennio fascista e portava un cognome ebreo.

Ricordo che io e altri due o tre compagni eravamo esentati dalla lezione di religione, perciò passavamo l’ora a passeggiare nel corridoio fuori dalla classe. Gli altri notavano questo elemento di distinzione e ogni tanto qualche gaglioffo se la prendeva con noi. Una volta uno mi prese in giro chiedendomi quando sarebbe arrivato il mio Messia, proprio a me che ero e sono rimasto ateo per tutta la vita.

Non ha mai creduto in Dio?

Mai. Quando fui arrestato, nel 1942, nel verbale feci scrivere “nessuna religione”. Mi sono sempre dichiarato un militante ateo e non rappresentavo affatto l’ebraismo. Anzi, ho sempre considerato la religione una forma di conforto per i deboli e una speranza per gli illusi.

Che studente era?

Feci i miei studi al liceo ginnasio Alfieri ed ero molto bravo in tutte le materie, tranne la matematica. Nella mia scuola c’era anche Natalia Levi, che poi sarebbe diventata Natalia Ginzburg. Ricordo che quando faceva i componimenti di italiano condiva i suoi scritti con una forte carica di erotismo, che oggi è normale ma allora li faceva sembrare rivoluzionari. Il professore era una fervente cattolico e la chiamava sempre da parte: era colpito dal suo stile, ma non accettava le spinte sessuali. Non siamo mai andati molto d’accordo, però, forse perchè era molto eccentrica. La ritrovai molti anni dopo in Abruzzo, al confino in un paese vicino a quello dove era stato mandato mio padre. Lei venne mandata in un paese che si chiamava Tornimparte e il suo primo libro lo firmò con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte.

Dopo il liceo si iscrisse a giurisprudenza.

Nel 1936 presi la licenza liceale e mio padre mi regalò la prima sigaretta della vita. Scelsi giurisprudenza perché mio nonno e anche mio zio erano avvocati e sentivo una certa tendenza di famiglia, per così dire. Poi, in quegli anni, mi sembrava che la rivendicazione del regno del diritto fosse quasi una necessità di fronte alla violenza e alla dittatura fascista.

Maturò all’università il suo antifascismo?

Io già all’epoca ero irriducibilmente antifascita. Odiavo il fascismo non solo per la sua carica di violenza e brutalità ma anche per la sua ignoranza, elevata a simbo- lo d’indipendenza. “Sine qua non”, dicevano, intendendo “siamo qua noi”. Ricordo un episodio: ero in corso Parigi e diluviava, così mi rifugiai in un portone. In quel momento passarono due donne coi bambini in braccio e io offrii loro di ripararsi al posto mio, ma mi risposero: «Siamo fasciste e non temiamo la pioggia». Era la stupidità elevata a sistema.

Il fascismo entrò anche nelle aule dell’Ateneo?

L’università allora era caratterizzata dal fascismo opprimente e i professori venivano in aula con la camicia nera. Non tutti volevano indossarla in giro per la città, così andavano nell’aula del bidello e indossavano una specie di ridotta camiciola che si inseriva nella giacca, come un ridicolo bavaglio. Non tutti, però, erano iscritti al partito: Luigi Einaudi, per esempio, non lo era: ma le sue lezioni erano sempre limate per non superare i limiti imposti dal fascismo.

Lei fu uno degli ultimi allievi del secondo presidente della Repubblica.

Dopo le lezioni aveva creato un gruppetto di una decina di allievi. A noi Einaudi rispiegava la lezione in modo più analitico, ma era noiosissimo nell’eloquio e io facevo uno sforzo terribile per non addormentarmi. Parlava in modo soporifero, ma scriveva magnificamente.

Ricorda il giorno in cui discusse la sua tesi di laurea?

Fu il 10 giugno 1940. Quel pomeriggio, dal balcone di piazza Venezia, a Roma, Mussolini pronunciò la dichiarazione di guerra contro Francia e Gran Bretagna.

Io avevo scritto una tesi sulla figura di Benjamin Constant ed era davvero il colmo che parlassi del fondatore del liberalismo davanti a una commissione di professori fascisti. Quando finii, vennero a stringermi la mano perchè quello stesso giorno mio padre era stato mandato al confino in Abruzzo. Ricordo la soddisfazione per aver ottenuto il titolo, ma il dolore per mio padre. Festeggiai il 15 giugno, offrendo una bicchierata in un rifugio antiaereo.

Perchè suo padre venne mandato al confino?

Mio padre è sempre stato antifascista e come segretario del circolo universitario era andato a Losanna, dove aveva incontrato anche un giovane Benito Mussolini, esuberante e polemico, il quale gli scrisse parecchie lettere. Ne conservo una, in cui proclamava: «Il mio fucile non tradirà mai la causa della rivoluzione socialista». Lì, però, mio padre era andato a incontrare Lenin. Beata ingenuità, gli offrì un corpo di volontari che, sbarcando in Crimea, spingessero alla liberazione. Come ovvio, Lenin si mise a ridere e gli disse che sarebbero stati tutti ammazzati dai contadini servi della gleba. Lenin chiese a mio padre di ospitare a Torino alcune giovani universitarie russe, mandate ai lavori forzati per la loro propaganda antizarista, e di aiutarlo con la stampa clandestina. Lenin mandava a Torino i fascicoli del bollettino “Iskra”, mio padre li metteva in buste commerciali e le rispediva in ogni parte della Russia. Per questo era stato sempre sorvegliato dal regime fascista, anche se aveva da tempo smesso di svolgere attività politica.

Lei, invece, venne arrestato nel 1942. Perchè?

Mi accusarono di disfattismo politico. Venni arrestato e rimasi tre mesi nel carcere “Le Nuove”. Furono giorni di enormi sofferenze, recluso in una cella di cui ricordo uno squallore terribile e un freddo spaventoso. Dividevo la prigionia con un epilettico, l’unica finestrella era rotta quindi dormivamo al gelo e lui aveva delle tremende crisi, durante le quali urlava in modo atroce. Quell’inverno fu forse il più doloroso: soffrii molto ma tenni duro, senza mai arrendermi di fronte alla durezza dei miei carcerieri.

Dov’era l’ 8 settembre 1943, il giorno dell’armistizio?

Ero a Torino, perchè facevo la spola dalla casa di campagna dove si era rifugiata la mia famiglia e il piccolo ufficio di mio padre, che sostituivo nel lavoro di assicuratore. Quando arrivò notizia dell’armistizio, sulla città scese un silenzio di tomba. I cinema chiusero e si abbassarono le saracinesche dei negozi, tutto era fermo e silente come se in città fosse arrivata una peste. Due giorni dopo arrivarono i tedeschi.

Che cosa la fece decidere di diventare partigiano?

Per me fu l’unica scelta possibile. Nei giorni dopo l’armistizio ero alla stazione di Porta Nuova e vidi arrivare un corteo di reclute di bersaglieri, ancora con il fez rosso e il ciuffo, scortati da alcuni soldati tedeschi. Venivano portati al treno per essere mandati in Germania. Mi sconvolse ciò che successe dopo: quattro giovani dissennati presero delle pietre e le tirarono contro i soldati tedeschi, il quali esplosero una sventagliata di mitra e ne uccisero alcuni. Quelli furono i primi caduti della resistenza, vittime loro malgrado della loro follia. Io infilai la strada della montagna armato di una pistola e di un cagnetto nero, che mi erano stati regalati in cambio di vestiti civili dai soldati della IV armata in fuga. Facevo la spola tra la città e i rifugi e, quando tornavo a Torino, distribuivo clandestinamente i volantini del partito liberale e del partito d’azione.

Rischiò la vita?

Il giorno del mio secondo arresto mi spararono. Vennero nello studio di piazza Solferino due agenti, uno piccolo e un gorilla. Cercavano Segre, ma io gli mostrai i miei documenti falsi con il nome di Bruno Serra. Quando iniziarono la perquisizione, però, trovarono solo documenti con scritto Segre e così capii che dovevo fuggire. L’ufficio era su un ammezzato e io mi gettai per le scale, ma dopo pochi gradini il gorilla sparò tre colpi: due finirono nel muro, un terzo mi colpì nella tasca posteriore dove tenevo il portasigarette di metallo. Così mi salvai la vita ma finii incarcerato nella caserma di via Asti.

Finita la guerra, fu il momento della ricostruzione. Come votò al referendum del 2 giugno?

Repubblica naturalmente. In quel periodo facevo il cronista al quotidiano L’Opinione, diretto da Giulio de Benedetti e a Torino venne Umberto di Savoia, detto il Re di maggio; vestito in borghese, distribuiva titoli di cavaliere per ottenere voti per la monarchia. Lo vidi in via Roma: era alto, bello e distinto ma intellettualmente una nullità. Non resistetti e lo avvicinai, chiedendogli: «Mi scusi signore, lei per cosa voterà il 2 giugno?». Lui mi guardò senza capire, poi si rese conto che lo prendevo in giro e corse via verso la Prefettura. Mi rimase impressa l’immagine di quest’uomo in fuga disperato, fuori dal tempo e senza contatti con la realtà.

In quegli anni fece il giornalista e non l’avvocato?

Erano anni duri e, dopo aver portato avanti il lavoro di mio padre, fui cronista con De Benedetti all’Opinione. Poi quando riaprì La StampaDe Benedetti passò a La Stampa. Così, per sbarcare il lunario, scrivevo un articolo e lo mandavo al Corriere di Trieste, al Paese Sera di Roma e alla Sicilia di Catania: in questo modo mi rendeva 6mila lire invece che 2mila. Intanto diventai procuratore.

Il suo processo più famoso fu quello in difesa di Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza.

Io ero amico di Aldo Capitini e fu lui a chiedermi di difendere Pinna davanti al tribunale militare. Citai come testimone l’onorevole Umberto Calosso, un vecchio antifascista che parlava da Radio Londra. Era un formidabile umorista ed esordì la sua deposizione così: «Egregi signori, sono venuto qui a insegnarvi a non perdere la terza guerra mondiale». Pinna venne infine riformato per ' nevrosi cardiaca' e io difesi moltissimi altri obiettori di coscienza dopo di lui, anche perchè non venne meno il pregiudizio contro di loro e una buona parte del Paese era contraria a rendere facoltativa la leva.

Lei sostenne anche la battaglia per il divorzio. Conobbe Loris Fortuna?

Certo, venne proprio in questo ufficio e organizzammo un comizio al teatro Gobetti. Allora noleggiai un aeroplano che sorvolava Torino e quella che allora era mia moglie lanciò sulla città migliaia di volantini che dicevano: «Il divorzio non viene dal cielo, ma dalla legge dell’onorevole Fortuna che stasera alle 18 parlerà al popolo di Torino al teatro Gobetti». Fortuna rimase sbalordito, perchè non aveva mai visto una folla simile. Modestamente, c’è un dettaglio di quella legge di cui vado molto fiero.

Quale dettaglio?

All’epoca ero attivo nel Partito Socialista e, insieme a una deputata e avvocata di Perugia, ottenni l’inserimento di un dettaglio piccolo ma importante: che le sentenze di divorzio non fossero gravate dal pagamento della tassa di registro, così le parti risparmiavano 100 lire. Questa esenzione è stata estesa anche alle sentenze di separazione, una caratteristica solo del diritto di famiglia.

Che cosa ha amato di più della professione di avvocato?

Mi ha sempre divertito molto discutere i processi. Poi, da avvocato matrimonialista, ho avuto un osservatorio umano unico: ho conosciuto la natura umana nei suoi aspetti più belli e in quelli più deteriori.

Preferiva assistere gli uomini o le donne?

Difficile dire, viste le miserie umane a cui ho assistito da entrambe le parti. Ho sempre considerato le donne più cattive, però.

E da giornalista, invece, cosa preferiva trattare?

Mi piacevano le interviste. Per La scena illustrata feci un piccolo colpo giornalistico, andando a intervistare la famosa “maestrina con la penna rossa” del libro Cuore di De Amicis. Poi intervistai Anna Magnani, attribuendole barzellette che mai aveva detto. Mi scrisse, ringraziandomi perchè avevo riportato esattamente le sue parole, anche se non era vero niente. Andai a trovare nel suo camerino anche Josephine Baker, e lei mi aprì completamente nuda. Si rivestì senza fretta mentre conversavamo come se fossimo vecchi amici.

Lei ha preso il meglio di due professioni, in fondo.

E’ vero, ma non ho preferito un lavoro rispetto all’altro. L’avvocato e il giornalista si possono fare insieme, perchè si integrano e completano perfettamente.

Ha nostalgia di qualcosa del suo passato?

Sapesse quanto mi manca la mia giovinezza e che malinconia mi provoca assistere alla mia decadenza fisica. Quanto ai rimpianti, non mi perdono i miei fallimenti matrimoniali e mi chiedo cosa sarebbe stato se nella vita avessi avuto più buon senso e mi fossi abbandonato meno all’istinto e più alla ragione.

E questi anni, invece, come li sta vivendo?

Non pensando al domani. La mia età è condizionata dall’udito che ho perso e dalla stanchezza che ogni tanto mi assale. Del resto, cento anni pesano. Quando li avrà anche lei capirà.