«Come si vede dal seguito che sta avendo il dibattito sulle denunce per molestie, l’aspetto di voyeurismo e di spettacolarizzazione che avevo sottolineato in una precedente intervista a Repubblica si sta ampiamente confermando». Lea Melandri anche davanti a un tema così spinoso, che ha coinvolto principalmente il mondo delle spettacolo, non rinuncia a leggere i fenomeni nella loro complessità. Lo ha sempre fatto, dagli anni Settanta, e continua a farlo oggi con la scrittura, la ricerca, il mescolare i diversi piani dell’umano. Uno stile e un pensiero inconfondibili nel panorama italiano che si ritrovano nel suo libro appena pubblicato da Neri Pozza, Alfabeto d’origine ( pp. 169, euro16). Nata a Fusignano, provincia di Ravenna, nel 1941, Melandri è una delle grandi protagoniste del femminismo italiano.

Perché non la convince il dibattito sulle molestie?

Quello che non mi convince in queste denunce è che si separa nettamente il potere dal resto. Il potere non è solo quello dei potenti, delle persone note, dei registi o produttori, dei datori di lavoro, è un potere maschile diffuso anche in forme molto meno visibili. Il potere maschile si colloca all’interno di un dominio secolare, che se è durato così a lungo è perché purtroppo è legato alle esperienze della vita intima: ai corpi, all’amore, alla sessualità, ai drammi familiari. È un dominio particolarissimo: vedo il rischio di non capirne né la durata né la profondità se si separa la vittima dall’aggressore, se si separa il potere da tutte le implicazioni profonde. Con queste analisi che tendono a separare la violenza dall’amore, il potere dalle implicazioni intime non si arriva mai a un’azione decisa, a un cambiamento profondo.

Che cosa intende per cambiamento profondo?

Penso che se si vuole un cambiamento profondo è necessario affrontare, in tutta la sua ambiguità, l’analisi di questo potere e anche le azioni con cui si pensa di contrastarlo, di modificarlo e di prevenirlo. Se si vuole davvero cambiare, come dicevamo negli anni 70, deve esserci una politica radicale, che va alle radici dell’umano. E alle radici dell’umano c’è questa vicenda intricata del rapporto tra i sessi: la costruzione delle identità e dei ruoli di genere.

Quindi le donne sono dentro questa costruzione, sono parte in causa?

È certamente importante che le donne prendano parola: non solo le donne che hanno visibilità pubblica, ma a maggior ragione coloro che stentano a uscire da un privato del tutto nascosto, e colpevolizzato, in cui hanno subito violenza. La presa di parola è fondamentale. Ma vorrei ricordare che la presa di parola che ha iniziato a modificare le coscienze in profondità sul rapporto uomo donna è iniziata negli anni Settanta, proprio a partire da questa intuizione fondamentale: le donne hanno fatta propria forzatamente la visione maschile del mondo, l’hanno cioè interiorizzata, l’hanno incorporata, hanno incarnato modelli, ruoli, identità che da quella visione provengono. Era l’unico modo per sopravvivere, per entrare in relazione. Capire quindi che la vittima ha parlato la stessa lingua del dominatore significa comprendere che è stata, forzatamente, il tramite del dominio. Tramite di non poco conto, perché le donne sono le madri dei figli maschi. Non chiamiamola complicità, perché se no sembra un atto di accusa nei confronti delle donne, troviamo un altro termine, ma non possiamo negare che le donne c’entrino in questa partita.

E gli uomini? Non crede che quella visione che lei denunciava prima e che li dipinge come mostri sia altrettanto schematica?

La polarizzazione che vede l’uomo solo come il mostro, il violentatore, è l’ennesimo inganno, è una falsità. Gli uomini attraverso le genealogie reali e simboliche, che hanno creato di padre in figlio, hanno anch’essi forzatamente dovuto assumere un ruolo che era di privilegio sì, ma anche fatica, di alienazione profonda nel dover assumere un ruolo virile. Gli uomini stessi iniziano a interrogare la virilità, a metterla in discussione. Non è difficile capire quanto anche gli uomini abbiano faticato nel mettersi in una posizione che li mutilava di una parte essenziale dell’umano: i corpi, la sessualità, i sentimenti, consegnati all’altro sesso. Un copione faticoso perché chiedeva di allontanare da sé quel corpo femminile da cui sono nati, che hanno desiderato e che hanno sentito anche come minaccioso. Dovremmo quindi interrogare insieme femminilità e maschilità senza però negare che un sesso è stato dalla parte del dominio. Dietro il patriarca c’è anche il figlio che si è garantito la continuità delle cure d’infanzia che venivano dalla madre.

La manifestazione di sabato, organizzata da Non una di meno contro la violenza sulle donne, riesce secondo lei a tenere insieme i piani? Quello della visibilità e il piano dell’approfondimento?

Nel mio percorso femminista ho visto molte riprese: ci sono stati dei percorsi carsici con riemersioni di grande portata. Penso ad esempio alla manifestazione del 2007 che ha imposto al dibattito pubblico il tema della violenza domestica. Per tanti anni il femminismo aveva taciuto su questo tema. Negli anni 70 abbiamo parlato della violenza invisibile, di quella violenza interiorizzata che abbiamo affrontato col tema dell’autocoscienza. Ma è nel 2007 che l’attenzione si sposta sulla violenza in famiglia che poi è quella più selvaggia, perché rappresenta il potere di vita e di morte, ma è allo stesso tempo la più diffusa. Non c’è bisogno di averla vissuta per saperlo. Con Non una di meno ho visto ricomparire, inaspettata, una generazione di donne giovanissime che si muovono anche a livello internazionale, con un’articolazione complessa come ci auguravamo negli anni Settanta. Si ha la consapevolezza che il rapporto tra i sessi e il dominio del patriarcato sono alla base di tutte le forme di dominio. Si vedono i legami che ci sono tra le diverse forme di violenza: ed è chiaro che il sessismo le attraversa tutte. Queste ragazze hanno ben chiaro che il sessismo non è un problema emergenziale, ma strutturale, sistemico.

Cosa la colpisce di più di questo movimento?

C’è l’apertura, che io considero molto interessante, alle soggettività Lgbtq ( lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e queer, ndr): vuol dire rendersi conto che la definizione rigida dei ruoli va a toccare la vita di tante persone. L’altro aspetto interessante è che, non avendo mire centralizzanti, Non una di meno si avvale di una rete che garantisce orizzontalità e rapidità di organizzazione. Quello che mi auguro è che si vada sempre di più avanti nella possibilità di approfondire i vari temi, anche se in meno di un anno sono stati organizzati ben tre convegni nazionali con i diversi tavoli tematici che hanno portato alla scrittura di un piano contro la violenza, che reputo straordinario. Ho invece letto quello del governo: si prevede una istituzionalizzazione dei centri antiviolenza che, a mio parere, fa sparire la loro autonomia.

È appena uscito “Alfabeto d’origine”, una scrittura originale, in bilico tra biografia e racconto, tra pensiero e memoria. Che cosa rappresenta per lei?

È insieme un libro del cuore e della politica. Non è un’autobiografia in senso stretto, ma una raccolta di scritti. Sono frammenti, schegge di una memoria, personale e da un certo punto della mia vita anche politica, che ha fatto naufragio per troppo dolore. I primi venticinque anni trascorsi in famiglia, sono stati segnati dalla povertà e dalla violenza e quando ho provato a tornarci con il pensiero ho dovuto appoggiarmi a frammenti di scritture di altri, è una ricostruzione per interposta persona.

Lei parla di scrittura d’esperienza, al quale dedica anche diversi seminari in giro per l’Italia frequentati da molte donne.

La scrittura d’esperienza è il tentativo di portare il pensiero in prossimità del corpo: la memoria del corpo. Alfabeto d’origine è una raccolta di scritti brevi che attraversano tutta la mia vita: il percorso che precede il ‘ 68, la famiglia d’origine, la vita in provincia, poi l’incontro con i movimenti non autoritari e il femminismo. Con questo libro è come se avessi potuto ricostruire il filo conduttore della mia vita. E questo filo conduttore è il fuori tema: fuori tema è stato per me poter fare, figlia di contadini poveri, un buon liceo e l’università, fuori tema è stato anche il mio vissuto di donna che ha assistito durante l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza a relazioni di amore e violenza in famiglia, fuori tema era tutto ciò che della mia esperienza non entrava nei linguaggi colti. Così scrisse la mia insegnante del liceo di una mia composizione: molto ben scritta ma fuori tema. Rimasi giorni a piangere a casa, poi per mia fortuna l’insegnante fu sostituita e tornai a scuola. L’incontro decisivo è stato con i movimenti antiautoritari: lì il fuori tema era il tema. E da allora ho sempre lavorato per portare allo scoperto tutto ciò che della vita era considerato impresentabile. Per citare Asor Rosa: questo mare ribollente delle cose...

Il suo ultimo libro è anche un omaggio al mare, quello di Carloforte in Sardegna.

Alfabeto d’origine è il tentativo di costruire una lingua che riesca a scardinare i linguaggi disciplinari per quello che hanno rimosso, che hanno deformato, scardinarli cercando di parlare la lingua dell’infanzia. Il luogo d’origine è quello di cui abbiamo nostalgia e per me è il luogo, così doloroso, di quella provincia che però mi ha dato anche tanto, grazie a due genitori generosissimi. Il libro inizia da Fusignano e finisce con lo splendore dei colori di Carloforte. L’isola che scoprii nel ‘ 76 grazie al femminismo: l’altra origine è stata la relazione con le donne e con il mare. Ma se io che non ero mai stata al mare ho potuto buttarmi dalle rocce, mettermi la maschera, amare i fondali di Carloforte è perché mia madre quando era incinta ballava...