Quest’intervista è stata raccolta nell’aprile del 2014 a casa di Battisti in Brasile, e pubblicata subito dopo

Scordatevi le leggende sul rifugio dorato in Brasile. Cesare Battisti vive con la moglie e la figlia in un modesto bilocale fuori San Paolo perché la vita in città è troppo cara. Magro, pallido, all’apparenza più giovane dei suoi cinquantanove anni, l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo - condannato per quattro omicidi avvenuti negli anni Settanta dei quali si è sempre dichiarato innocente - sembra sereno, ma non in pace. Non cerca grane, ma parla con rabbia della tortuosa vicenda dell’estradizione chiesta dall’Italia e negata dal Brasile il 31 dicembre del 2010 per decisione dell’allora presidente Lula da Silva. “Se il governo italiano avesse mentito meno, probabilmente l’avrebbe spuntata” dice Battisti. “Lula non l’ho mai visto, non ha nessuna simpatia per me. Ma siccome dall’Italia arrivavano notizie contraddittorie e assurde sulla mia vicenda, Lula ha cominciato a prendere informazioni per conto suo. A un certo punto nel governo di qua si sono sentiti presi in giro dall’Italia, mica sono scemi i brasiliani”.

Battisti giura di non aver ucciso nessuno. Non ha mai visto le quattro persone per il cui omicidio è stato condannato, dice. E di passare per un criminale scampato alla galera grazie a una premurosa gentilezza del governo brasiliano, non gli va. O quanto meno, questo gli piace raccontare.

Se attraversi la frontiera puoi essere arrestato. Ti pesa non poter uscire dal Brasile?

Non ci penso neppure ad attraversare la fron- tiera. Spero di fermarmi qui. L’Italia da almeno quarant’anni non è casa mia. Restava la Francia per me, ma ormai nemmeno quella. Non tornerei più neanche lì. Tornare indietro tanti anni dopo, non funziona. Hai lasciato una realtà che non esiste più, tutto si è modificato. Torni con un’idea del posto che non corrisponde più alla realtà. Ho visto cosa è successo ai rifugiati italiani a Parigi che poi sono tornati in Italia. Nessuno ha resistito. Dopo sei mesi rientravano in Francia di nuovo.

Dicevi di voler appellarti al presidente Napolitano per tornare in Italia. Non era vero?

Non era un’invenzione. E’ che Napolitano fa tanto il furbetto. Alla fine, vediamo un po’, volete farmi un processo? E fatemelo! Io ci sto. Sono loro che non ci starebbero mai. Sono stato processato in contumacia, senza avvocati, dovrebbero essere considerati nulli i processi che mi hanno condannato.

Sei stato processato in contumacia perché eri latitante. E’ stata una tua scelta.

Ah sì? Dovevo andare in Italia a farmi un ergastolo, o a farmi ammazzare. Certo, come no… Hai partecipato a qualcuna delle azioni armate in cui sono stati commessi i quattro omicidi per i quali sei stato condannato?

Non facevo più parte dei Pac quando sono stati commessi quegli omicidi. Sono stato giudicato in Italia e condannato a 12 anni e mezzo per associazione sovversiva e detenzione di armi, dopo che gli omicidi erano già avvenuti. Nessuno mi ha mai interrogato riguardo quegli omicidi. Nello stesso processo in cui io sono stato condannato a 12 anni e mezzo, sono state condannate alcune persone per quegli omicidi. Il mio nome non è mai stato fatto, neanche dai torturati. Durante l’operazione Torregiani alcune persone sono state torturate, queste persone hanno parlato sotto tortura e neanche lì il nome di Cesare Battisti è mai venuto fuori. Quando ero in Messico hanno rifatto il processo grazie alle dichiarazioni false di Pietro Mutti. Una delazione premiata, solo che lui ha mentito. E mi hanno condannato all’ergastolo senza prove. Non c’è una prova tecnica contro di me, non c’è un testimone, non c’è niente.

E le prove documentali?

Le prove documentali mostrano la mia innocenza. La pistola che avrebbe sparato all’agente della Digos è stata trovata a un altro che avrebbe anche confessato, per esempio. Nessuno mi ha mai accusato, nessuno.

E perché ti avrebbero coinvolto?

Quello che ha messo in mezzo me è uno solo, si chiama Pietro Mutti. Scaricando tutto su di me, invece di prendere alcuni ergastoli, ha preso pochi anni di galera, ubbidendo alle indicazioni di un procuratore della repubblica abbastanza famoso che continua a perseguitarmi. E chiudiamola qui perché non c’è bisogno di fare nomi già noti.

Hai mai sparato?

Contro persone no.

E a chi sparavi? Agli uccelletti?

Agli uccelletti, agli alberi, alle persone mai.

In nessuna di quelle quattro azioni armate sei stato presente fisicamente?

Non facevo più parte dell’organizzazione.

Ma c’eri o no?

No! Non facevo più parte dei Pac, come facevo ad esserci?

Se ti si garantissero delle condizioni di incolumità personale e un processo imparziale, torneresti in Italia?

Lo rifarei il processo perché non hanno nessuna possibilità di vincerlo, nessuna. Il problema è che non mi fido dell’Italia, servirebbero degli osservatori internazionali, perché non me l’hanno mai fatto un processo, non sono mai stato interrogato riguardo questi omicidi da un poliziotto, da un giudice. Mai.

Se non fossi fuggito ti avrebbero interrogato.

Che Paese è un Paese in cui si fa un processo e si condanna qualcuno senza interrogarlo?

Hai notizie di Alberto Torregiani?

Ma che ne so, avevo una corrispondenza con lui, avevamo una buona relazione, l’ho aiutato anche a scrivere un libro, lui sa benissimo che io non c’entro niente con la morte del padre, ma poi è stato minacciato.

Da chi?

L’hanno minacciato di togliergli la pensione e lui ha eseguito gli ordini e si è messo a urlare contro di me. Ha cambiato idea all’improvviso, si è messo a dire che io sono un criminale quando sa benissimo che non c’entro io con la morte di suo padre.

E’ vero che quando ti hanno arrestato a Rio de Janeiro nel marzo del 2007, ti hanno preso seguendo una persona che ti stava portando dei soldi?

No. Sapevano che ero qui da quando sono arrivato. Mi controllavano continuamente.

E perché a un certo punto hanno deciso di arrestarti?

Perché era arrivato il momento, conveniva a qualcuno.

Ti eri accorto di essere seguito?

Era evidente, non si sono mai nascosti.

Allora perché ti nascondevi tu?

Non mi sono mai nascosto io. Tutti sapevano che ero a Copacabana, come facevo a nascon-

dermi se la polizia mi stava sempre dietro? Ci parlavo io con i poliziotti.

Nel governo brasiliano chi ti ha aiutato di più? L’allora ministro della giustizia Tarso Genro? A me una mano non l’ha data nessuno. A un certo punto quelli che avevano deciso a priori di estradarmi, si sono resi conto che le cose non stavano come gli avevano raccontato e hanno cominciato ad investigare.

Parli di Lula?

Sì, di Lula e di Genro. L’intenzione di Lula e di Genro all’inizio era di estradarmi perché avevano ricevuto informazioni dall’Italia completamente pompate, assurde. Poi si sono accorti che qualcosa non filava. Un esempio: quando si tratta di condannarmi, si usa la legislazione sul terrorismo e mi si tratta come un terrorista. Ma poi quando si tratta di chiedere l’estradizione, mi si tratta come un delinquente comune. Aho’, ma questi mica sono scemi! E hanno fatto quello che dovevano fare, si sono informati autonomamente, ci hanno messo quattro anni, ma l’hanno fatto.

Perché dici che non ti hanno aiutato? Genro si è molto esposto per te, ti ha anche concesso lo status di rifugiato nel 2009 infilandosi in un guaio, o no?

Genro all’inizio voleva estradarmi. Quando si è accorto che gli italiani stavano mentendo, ha cambiato posizione. A quel punto ha voluto vederci chiaro, ha chiesto aiuto, ha usato dei consiglieri. Li ha fatti viaggiare, ha fatto fare delle ricerche. Cosa che ha fatto poi anche Lula per conto suo. Se gli italiani al governo fossero stati furbi, se avessero mentito meno, gli sarebbe andata bene probabilmente, non l’hanno avuta vinta perché hanno esagerato.

Secondo te il governo brasiliano si è indispettito?

Beh, di certo non ha gradito che gli si raccontasse dall’Italia che negli anni Settanta da noi non c’è stata guerriglia. Ma insomma, stiamo parlando a un capo di Stato di un grande Paese, al suo ministro della giustizia, a gente, tra l’altro, che la lotta armata l’ha fatta. Gli raccontiamo una stronzata del genere?

Non sarà che invece Lula si è trovato in mano il tuo caso quando ormai il dossier Battisti era diventato già una patata bollente, quando la sfida tra lui e il Tribunale supremo era aperta, e a quel punto gli è toccato tenerti in Brasile?

Lula è uno statista e da statista si è comportato. Ha messo in moto una serie di persone per capire chi ero io veramente. Ha investigato il periodo in cui stavo in Messico, il periodo in cui stavo in Francia e il periodo in cui stavo in Italia. Quando Genro decise all’inizio di darmi lo status di rifugiato, Lula era già d’accordo sul farmi restare in Brasile. E non gli stavo simpatico. Se avesse potuto mi avrebbe estradato.

Quindi non ti consideri il regalo che Lula, alla fine del suo secondo mandato, ha fatto all’ala sinistra del suo partito?

Lula non fa regali a nessuno. Lula è una volpe. Accettare la richiesta italiana di estradizione avrebbe potuto essere una decisione per lui sconveniente. Senti, la giustizia italiana sa benissimo che io non c’entro niente con quei quattro omicidi, sa benissimo che è tutta una pagliacciata. Io ho fatto parte di un movimento, rivendico di aver fatto parte di questo movimento. E basta. Se poi vogliamo stare alle regole dei tribunali, ci stiamo. Allora però devono mostrare le prove. Non ce l’hanno le prove. Sono loro che devono dimostrare che sono colpevole, non io che sono innocente. Gli autori di quegli omicidi avevano confessato. La verità sta nei processi. Sta tutto lì scritto. Sono stato condannato con una legge retroattiva, una cosa del genere non esiste neanche in Paraguay.

A fuggire dalla Francia ti hanno aiutato i servizi?

Mi sono aiutato da solo. Tra Chirac e il governo italiano il patto era fatto, mi hanno venduto come merce, io l’ho saputo e sono andato via. Cosa dovevo fare? Aspettare che mi venissero a prendere?