Una commissione d’inchiesta parlamentare sul Tangentopoli, per chiarire gli effetti dell’inchiesta sulle elezioni del 1994. La proposta, presentata alla Camera dal Partito socialista, «nasce dalle dichiarazioni del leader del pool, Antonio Di Pietro, il quale alcuni giorni fa ha dichiarato: “Abbiamo costruito il consenso sulla paura delle manette”», ha spiegato Riccardo Nencini, segretario socialista e viceministro dei Trasporti.

I socialisti chiedono una commissione d’inchiesta su Tangentopoli. La vendetta è un piatto che va servito freddo?

Non c’entra nulla. Guardi, avrei trovato gravi le parole di Di Pietro anche se militassi in un partito diverso. Si tratta di dichiarazioni che suscitano reazioni al di là dell’appartenenza politica: quando un ex magistrato, riferendosi alla sua attività negli anni in cui vestiva la toga, mette insieme «consenso» e «paura delle manette», crea un connubio proprio degli stati inquisitori e totalitari. A lei non sembra pericoloso, in uno Stato di diritto? A questo bisogna pensare, indipendentemente dall’appartenenza politica dei singoli.

E quale mandato dovrebbe avere la commissione d’inchiesta?

La commissione dovrà fare anzitutto chiarezza. Già ne 1992 e negli anni successivi si mise in dubbio la tecnica con cui venne portata avanti l’inchiesta di Mani Pulite, e ora quei dubbi trovano conferma nelle parole del massimo protagonista di quel periodo. Di più, le sue ammissione aprono il campo a ulteriori domande.

Per esempio?

Per esempio bisogna chiarire se il sistema utilizzato nelle indagini e nell’inchiesta sia stato corretto e se i diritti della difesa siano stati lesi o meno. Se, come ha detto Di Pietro, è la paura delle manette che crea il consenso per proseguire l’indagine, in cosa si sostanzia questa paura delle manette? Di Pietro dovrebbe essere più chiaro: c’è un riferimento specifico, dietro le sue parole? La mia non è una illazione politica ma una riflessione a partire da ciò che ha dichiarato un magistrato importante, nell’interesse dello Stato.

Lei immagina che si sia trattato di una linea di condotta generalizzata nella magistratura dell’epoca?

Io mi chiedo e vorrei chiedere a Di Pietro se quello che ha descritto era una fenomeno che riguardava soltanto lui. Dopo questa prima ammissione di verità, anche coraggiosa da parte sua, ne dovrebbe seguire una più specifica: lui sostiene che si costituì il consenso sulla paura delle manette, e allora dovrebbe fare nomi, cognomi, episodi...

Il giudizio è pesante e rischia di cadere sull’intera categoria della magistratura.

Senta, conosco ottimi magistrati e so benissimo che non tutti la pensano come Di Pietro. Si tratta, però, di dichiarazioni pubbliche mai smentite e in un paese civile si ha il dovere di chiedere di più, soprattutto vista la rilevanza avuta da Tangentopoli nella storia del Paese.

Che effetti ha provocato Tangentopoli per la politica italiana?

Intanto ha consentito l’anticipazione di alcuni fatti: l’italia è stato il primo Paese a sperimentare la politica dell’uomo solo al comando, dopo la distruzione dei partiti. Il fenomeno è apparso anche altrove, negli anni successivi, ma lì i partiti sono rimasti, anche se hanno cambiato caratteristiche e organizzazione. Da noi, invece, Mani Pulite ha imposto un’accelerazione al fenomeno della distruzione dei partiti di stampo novecentesco, dovuta non a un cambiamento sociale ma all’intervento della magistratura.

Eppure, riprendendo le parole di Di Pietro, di quale «consenso» aveva mai bisogno la magistratura, per condurre quell’inchiesta?

E’ esattamente questo il punto da chiarire: proprio perché la magistratura non ha bisogno di consenso il fatto è grave. Un’indagine non si parametra sul consenso che esternamente si riceve, eppure nel 1992-‘ 93 Di Pietro ha ritenuto che il consenso fosse necessario per procedere a tappe forzate in un’indagine di cui ben conosciamo gli esiti. Non solo, rimane aberrante il binomio manetteconsenso, che poco ha a che vedere con l’esercizio della giustizia ma adombra l’inquietante sensazione di un potere giudiziario che punta a volersi sostituire al potere politico.

A 25 anni da Tangentopoli, in questi mesi si sta allungando la lista di politici assolti dopo inchieste molto enfatizzate sulla stampa. La politica ha ora buone ragioni per rifarsi sulla magistratura?

No, io non credo che la politica viva un senso di rivalsa. Rilevo però, citando solo due casi, che l’inchiesta su Mastella provocò la caduta del governo Prodi, mentre il caso Orsoni ha azzerato il comune della città di Venezia. Tutto questo mi fortifica nelle mie convinzioni: la necessità della separazione delle carriere tra giudice e pm e della responsabilità civile dei magistrati.

Tornando alla commissione d’inchiesta, lei crede che troverà consenso tra i suoi colleghi in Parlamento?

Ma certo, io spero che i colleghi mi diano il sostegno. Immagino che siano preoccupati quanto me se un ex magistrato, riferendosi alla sua precedente attività in toga, si esprime nei termini usati da Di Pietro. Oggi presenteremo la proposta di legge alla Camera, poi lo faremo al Senato e speriamo sia calendarizzata. Se così non fosse, ci rivolgeremo al ministro della Giustizia, Andrea Orlando.