«Non c’è un momento sbagliato per fare una cosa giusta. E lo ius soli è una cosa giusta che andava fatta ieri». Il direttore di Avvenire Marco Tarquinio da mesi si batte perché venga approvato lo ius soli, e per farlo non solo sprona i politici, ma racconta sul quotidiano dei vescovi la nuova generazione di italiani ora senza cittadinanza. Mentre altri giornali li descrivevano come stupratori e ladri, su Avvenire, per tutta l’estate, hanno preso vita i ritratti di ragazzi e ragazze che sono già italiani, anche se non per legge. Ma la paura del diverso, costruita ad hoc, resta. Tarquinio parla di «spacciatori della paura» che hanno creato questo clima. Insieme alla paura, l’altro elemento preoccupante è l’odio. «Per questo - dice - applaudo all’iniziativa del Consiglio nazionale forense contro il linguaggio dell’odio: questi momenti sono fondamentali».

Come commenta la battuta d’arresto per la legge sullo ius soli?

Intanto preferisco parlare di ius culturae, con un contenuto di ius soli temperato: questa è la legge. Siamo in questa cornice, checché se ne dica. Continuo a pensare quello che abbiamo scritto e ripetuto in tutti in modi: questa normativa arriva in ritardo di anni. Se venisse approvata, sarebbe una risposta tardiva - a una domanda che nasce dalla realtà. E la realtà è quella di centinaia di miglia di giovani, parte integrante della nuova generazione, che sono italiani di fatto ma non di diritto. Sono impigliati nelle maglie dell’attuale legge sulla cittadinanza, che tiene pezzi di famiglia dentro la cittadinanza italiana, altri pezzi fuori. Lo abbiamo raccontato sul nostro giornale per tutta l’estate. È questa la realtà. Poi si possono raccontare le favole tristi e cattive che sono state raccontate: che si dà la cittadinanza all’ultimo sbarcato, allo stupratore di turno, allo spacciatore. La legge dice altro. Ed è una legge come tutte le leggi perfettibile. Ma con la scusa della perfezione non si può non andare mai al traguardo. Ed è purtroppo la situazione in cui ci troviamo.

Una delle motivazioni più forti che viene messa in campo da chi è contrario alla legge, non è tanto sul merito, ma sul fatto che approvandola si fa un regalo ai partiti come la Lega che sono contro i migranti.

Sono discorsi che stento a capire. Credo che si possa e debba prestare ascolto alle paure di chiunque, soprattutto a quelle dei propri concittadini o di quei settori dell’opinione pubblica che sono in qualche modo intimoriti dalla presenza nella nostra società di persone che provengono da altre culture, altre nazioni, e che hanno la pelle diversa da quella della maggioranza degli italiani. Si debba dare ascolto: non ragione. Si devono invece proporre ragioni per superare la paura. Gli spac- ciatori della paura raccontano quello che non è, per qualche interesse elettorale. È molto grave che ci siano politici, che hanno portato questo testo di legge alla Camera migliorandolo rispetto alla prima stesura, che oggi ci ripensano sulla base di un principio di precauzione male applicato. Non c’è un momento sbagliato, per fare una cosa giusta. E questa è una cosa giusta che andava fatta ieri.

A proposito di spacciatori di paura non crede che stampa e televisione abbiano avuto un ruolo fondamentale nel creare questo clima?

Gli uomini e le donne della comunicazione hanno responsabilità analoghe a quelle degli uomini e delle donne della politica. Naturalmente i legislatori ne hanno un po’ di più. Ma noi continuiamo a creare il sentimento prevalente nel Paese. Se tanti, non tutti, ma troppi italiani – in questa fase – hanno questa percezione della convivenza e percepiscono l’altro da sé come ostile, come sovrabbondante, è la conseguenza del modo con cui la realtà dell’immigrazione viene raccontata all’opinione pubblica. Nel suo libro Dare i numeri, Paolo Pagnoncelli descrive bene la situazione che viviamo nel nostro Paese. La gran parte dell’opinione pubblica - molti non impaurendosi per questo, altri tantissimo - è convinta che il 30 per cento della popolazione sia fatta di immigrati. I numeri reali sono che non si arriva all’ 8 per cento. Questo la dice lunga sulla distorsione che è stata creata e che chiede un esame di coscienza.

Può fare qualche esempio concreto di queste distorsioni?

Dobbiamo smetterla di definire le persone, in particolare chi commette un reato, sulla base della provenienza. È difficile leggere: quattro milanesi fanno una rapina. È invece facile leggere quattro rom o quattro romeni o quattro marocchini o quattro calabresi: perché anche una parte dell’Italia viene discriminata. Dobbiamo stare molto attenti a questo uso del linguaggio. I nostri codici deontologici lo dicono molto chiaramente. Purtroppo il trend è un altro, ma va capovolto una volta per tutte.

Se la legge non dovesse passare, non teme che le tensioni sociali più che diminuire possano aumentare?

Credo che la scelta di non dare una risposta adeguata, all’attesa di giustizia seria che questa legge rappresenta, sia imprudente. La qualità scadente e urticante del dibattito, che sta accompagnando le vicissitudini della normativa, è tale che può generare sentimenti di risentimento da parte di chi si sente rifiutato. Se persone che sono italiane per nascita, formazione, esperienza di vita, costumi e ormai per consuetudine, vengono trattate come diverse, perché non dovrebbero sentirsi davvero diverse, fino a ricambiare l’ostilità con l’ostilità? È la cosa più sbagliata che si potesse fare: impostare il discorso che riguarda una parte importante della nuova generazione di italiani con questa modalità e con questa aggressività ingiustificabile. Spero ovviamente che non si arrivi a una deludente “non risposta” e che si ponga rimedio. Ma una certa dose di tossine, non senza malizia, è stata già messa in circolo.

Paura e odio vanno di pari passo. La società della paura è anche, come spiegano diversi sociologici, la società del rancore. Qual è il legame tra paura indotta e questo modo di esprimere il proprio dissenso?

Intanto voglio sottolineare che viviamo ancora in un Paese civile, non razzista e con sani principi anche rispetto alla considerazione delle persone diverse da sé. Ne sono convinto, altrimenti avrei già cambiato Paese ( ride, ndr). C’è però una minoranza particolarmente aggressiva che si è impadronita dei nuovi strumenti di comunicazione, che strepita e che occupa la scena, incalzando la politica e i mezzi di comunicazione. Crea un rumore di fondo insopportabile, aspro, che sta accompagnando questa fase della nostra vita comune. Questo fenomeno va considerato con tutta la preoccupazione possibile. E sta trascinando, a partire dal web, tutto il dibattito pubblico.

Come si può reagire per fermare questa deriva?

Le paure vanno consolate, le ferite vanno lenite; ma non si può dare ragione a quelli che usano il coltello dell’odio e della paura, né si può assecondare l’ostilità fondata sul pregiudizio. Serve quindi una risposta alta e severa da parte di coloro che hanno più responsabilità. Penso soprattutto alla politica. Perché l’esempio, c’è poco da fare, viene da lì.

A settembre, su iniziativa del Consiglio nazionale forense, il G7 dell’avvocatura è stato dedicato al tema del linguaggio dell’odio.

Applaudo a tutte le iniziative assunte dal Consiglio nazionale forense e dal vostro giornale. Con Famiglia cristiana e gli altri giornali della Fisc qualche anno fa promuovemmo qualcosa di simile: manifesti e inserzioni contro le parole che uccidono. La vostra campagna è importante perché arriva da persone che si occupano di informazione e di diritto.

In quell’occasione sono emerse due questioni con maggior forza: la sfida culturale e il piano del diritto.

L’Italia ha tutti gli strumenti giuridici necessari per contrastare il fenomeno dell’odio. E questi strumenti vanno applicati con serietà ed efficacia, cosa che l’Italia – come dimostra la lotta al crimine organizzato – sa fare molto bene. Ma credo che rispetto alle parole dell’odio la sfida sia soprattutto educativa. Sono le parole che usiamo noi comunicatori, ma anche quelle che si sentono in famiglia e a scuola. Si tratta di radicare profondamente l’idea del rispetto dell’altro. È una cosa che io ho imparato da bambino, a scuola e in famiglia, ed è un lascito che abita la mia vita, un lievito che ho cercato di usare al meglio. In Italia c’è bisogno di due grandi investimenti. Uno nei confronti delle persone che decidono di avere figli, perché il nostro Paese si sta avviando verso un terribile declino demografico; l’altro investimento è il raddoppio dello stipendio degli insegnanti. La scuola è la fabbrica del futuro, quella vera. Non è possibile continuare a considerarla come l’ultima delle attività. La formazione delle persone è fondamentale. Tanto più in un tempo come questo, in cui gli strumenti della comunicazione sono a disposione di tutti, e tutti diventano opinionisti e diventano blogger. La risposta della società deve essere quella di una formazione che metta chiunque nella condizione di dare il meglio, non il peggio di sé, come stiamo invece sperimentando. Se non si comincia subito, non si otterranno mai i frutti.

Non crede che questo ruolo prima era svolto anche dalla Chiesa attraverso la vita delle parrocchie e che adesso non riesca più ad incidere, come un tempo, sul senso comune?

Se si pensa che la Chiesa sia un luogo immobile, chiuso e recintato dentro le nostre comunità, la difficoltà c’è e si vede. Se consideriamo le chiese come luoghi aperti dai quali si esce, come dice papa Francesco, e dove non ci si chiude dentro né si chiude dentro Cristo - la parola che più di tutte si è chiamati a far vivere - la prospettiva cambia. Io credo che ci siano delle formule in parte superate o da reinterpretare, allo stesso tempo c’è un compito da onorare e un tempo nuovo da vivere. Viviamo in società secolarizzate e per tante persone la proposta di fede cristiana è una novità assoluta. Si sono perse le tradizioni che portavano inevitabilmente a quello sguardo, a quell’esito e a quella fede. I pulpiti dai quali si sentono le prediche sono soprattutto quelli televisivi, mediatici. E’ quindi importante trovare nuove strade tra la gente vera. Non c’è problema che non possa essere risolto nel faccia a faccia, quando ci si mette ad altezza di donna o di uomo, guardandosi negli occhi. La chiesa oggi sta praticando questa strada: c’è qualcuno che guarda l’altro negli occhi o comunque ci sta provando.

Che cosa dice ai politici che sono chiamati ad approvare la legge e che tentennano, e che cosa dice a quei ragazzi che rischiano ancora una volta di restare fuori dalla cittadinanza?

Ai politici ribadisco quello che ho detto prima: se una cosa è giusta, non c’è un tempo sbagliato per farla. Il tempo è sempre attuale, lo era ieri, lo è oggi. Lo sarebbe anche domani, ma domani sarebbe tardi. Prima lo si fa, meglio è. Sarebbe una ricchezza per tutti, per il Paese. E non può essere considerato il contrario, perché sarebbe veramente una bestemmia.

E ai giovani che aspettano?

Dico: non ascoltate coloro che vi dipingono per quello che non siete. Non date ascolto a chi dice che non siete parte della nostra storia, a quelli che vi scarabocchiano la faccia fino a farvi sembrare mostri, stupratori, terroristi. Continuate a credere che in Italia c’è tanta gente giusta che vi considera già concittadini e che si batte perché questo diritto venga riconosciuto.