Eclissi della politica, aggressione allo stato sociale, aumento delle disuguaglianze. Qui l’odio s’insinua, prende forma di parola e si fa linguaggio condiviso. Nascondendosi – troppo spesso – dietro un opaco quanto inattaccabile anonimato. Ne parliamo con Luigi Ferrajoli, giurista e professore emerito di filosofia del diritto. In corso di pubblicazione per Laterza, il suo ultimo libro: “ Manifesto per l’Uguaglianza”.

Odio dunque parlo, professor Ferrajoli?

Il linguaggio dell’odio sta sviluppandosi e generalizzandosi perché è legato non solo alle nuove forme della comunicazione – spesso anonime – ma anche al crollo delle forme e dei sentimenti tradizionali della solidarietà, al venir meno dei legami sociali.

Un ennesimo effetto della crescita della diseguaglianza?

La diseguaglianza, la povertà estrema, la disoccupazione, la precarietà e il senso di insicurezza hanno avuto come prevedibile esito la fine della fiducia nella sfera pubblica e del senso di appartenenza a una comunità di uguali. Di qui l’odio per i diversi, i migranti in primis, concepiti come nemici.

Abbiamo smesso di odiare il “padrone” e cominciato a odiare il “servo”?

E’ stata questa la strategia politica messa in atto dai governi e sperimentata con successo da Trump: mettere gli ultimi contro i penultimi, i poveri contro i poverissimi.

Una strategia che ribalta la direzione della lotta di classe: non più dal basso verso l’alto ma dal basso verso chi sta ancora più in basso.

Strategia politica a parte, questo linguaggio dell’odio sembra riflettere un odio vero.

Assolutamente sì. Come pure sentimenti di rancore e disperazione ma soprattutto sfiducia: sfiducia nelle istituzioni, nella politica, negli altri, nei concittadini. Tutto questo è il risultato di un processo di disgregazione sociale prodotto dalla disoccupazione, dalla svalutazione del lavoro, dal misconoscimento delle competenze, dai bassi salari e dalla creazione di fittizie disuguaglianze tra lavoratori.

Da qui il senso di lesione dell’amor proprio e l’aggressività generalizzata.

Dov’è finita la politica?

La politica ha abdicato al suo ruolo di tutela degli interessi generali e di garanzia dei diritti dei più deboli: un’abdicazione che si è espressa nell’aggressione allo stato sociale. A cominciare dai ticket sui farmaci e sulle prestazioni sanitarie, a mio parere incostituzionali perché la salute è un diritto fondamentale, base dell’uguaglianza e perciò universale e gratuito.

Parliamo della politica italiana?

La politica italiana è uguale a quella di tutto il mondo occidentale. E’ l’economia a governarla. I rapporti si sono ribaltati: non è più la politica a governare la politica, ma viceversa. Il tutto è legittimato dalla tesi, ripetuta da tutti i governanti e da quanti li sostengono che “non ci sono alternative” alle politiche attuali, cioè alla subalternità ai mercati. E la mancanza di alternative equivale alla fine della politica che è prima di tutto trasformazione, alternativa all’esistente.

Da noi non si salva nessuno?

Il punto è che non c’è più rappresentanza. Il paradosso è che l’unico terreno su cui c’è rappresentanza è proprio quello dell’odio. Maggioranza e opposizione fanno a gara ad assecondare, interpretare, rappresentare l’odio, l’intolleranza e la paura nei confronti dei diversi. Proprio per questo considero ridicola la critica al sistema proporzionale – perché incapace di dar vita a una maggioranza – quando di fatto tutti fanno le stesse politiche economiche e sociali.

Cos’è che manca davvero?

Un programma, un progetto. In realtà ci sarebbe un enorme spazio per una forza di sinistra che semplicemente si impegnasse nell’attuazione del progetto costituzionale, cioè nella difesa dei diritti sociali e delle garanzie del lavoro. Accade invece che il Partito democratico e la destra, sostanzialmente, non si differenziano nelle loro politiche economiche. E’ questo che produce la percezione di una politica parassitaria, ridotta a tecnocrazia, cioè all’attuazione tecnica dei dettami dei mercati. Come diceva Norberto Bobbio, la tecnocrazia è la negazione della politica e insieme della democrazia.

Rispetto all’immigrazione, come le pare il modello tedesco?

Lì, nonostante le critiche che possiamo rivolgere alla Germania, la politica è a un livello più alto. Una politica che non ha dimenticato il compito - anche giuridico - di attuare i precetti costituzionali, di difendere i diritti umani e la dignità delle persone. Qui da noi la vittoria del no al referendum era apparsa come una vittoria dei principi costituzionali, ma tutto questo è già scomparso dall’orizzonte della politica.

Insomma, insieme alla politica si è eclissato anche il diritto?

Semplicemente non parlano più lo stesso linguaggio, come è stato sino a qualche anno fa.

Il linguaggio della politica, oggi, è il linguaggio dell’economia che ignora termini come uguaglianza, dignità della persona, diritti umani e diritti sociali. E il linguaggio dell’economia è fatto solo di Pil, efficienza, crescita, riduzione delle tasse.

Parliamo allora delle differenze, quelle che maggiormente sembrano scatenare sentimenti di odio.

Le differenze hanno a che fare con l’identità della persona.

Parlo delle differenze di sesso, di religione, di opinioni politiche, di etnia, elencate dal primo comma dell’art. 3 della Costituzione. Sono le differenze di identità, che il principio di uguaglianza impone di tutelare stabilendo la “pari dignità” di tutte le differenze di identità che fanno di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli altri e di ciascun individuo una persona uguale alle altre.

E’ singolare il fatto che alla crescente intolleranza nei confronti delle differenze si accompagni una disponibilità quasi inaudita ad accettare come naturale e inevitabile l’aumentare impetuoso delle diseguaglianze...

Le diseguaglianze non hanno nulla a che fare con le differenze di identità delle persone, ma solo con le loro condizioni di vita materiali, economiche e sociali, che il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione impone di rimuovere e di ridurre.

Aggiungo che sia le differenze che le diseguaglianze sono circostanze di fatto, mentre il principio di uguaglianza è una norma, diretta a tutelare le prime mediante i diritti di libertà, e a rimuovere le seconde per il tramite dei diritti sociali ( alla salute, all’istruzione, a un reddito di cittadinanza) Può il diritto facilitare l’integrazione rendendo i migranti più consapevoli dei propri diritti?

Sì ma questo vale per tutti, non solo per i migranti.

Naturalmente le diverse culture vanno rispettate, ma solo fino a che non ledono diritti fondamentali, in quanto tali indisponibili: una cosa è il velo, un’altra è l’infibulazione. Certo fa parte dell’integrazione la conoscenza e il rispetto dei nostri principi costituzionali, ma nell’una né l’altra possono essere imposti dal diritto, pena la loro illiberale negazione.

Mi sembra un po’ drastico.

Un principio generale di carattere liberale è che si regolano i comportamenti e non le idee. Le idee vanno promosse attraverso la cultura, ma non attraverso il diritto.

Non si possono discriminare tesi, pensieri, posizioni politiche, anche se sono in contrasto con i valori costituzionali. I fascisti non ci piace che esistano, ma non possiamo reprimere le loro idee, ma solo combatterle argomentando e praticando le idee dell’antifascismo.

Dal linguaggio dell’odio alla guerra santa.

Siamo in presenza di culture terroriste e assassine alle quali – a cominciare dalla vendita delle armi – continuiamo a fare regali, come il panico generato dall’eccessivo spazio dato dai media ai loro crimini.

C’è poi un altro regalo che facciamo ai terroristi: parlare di “stato” islamico e utilizzare contro di essi il linguaggio della guerra anziché quello del diritto penale. Giacché agli atti di guerra si risponde con la guerra, come è stato fatto l’ 11 settembre contro la strage delle Due Torri gettando così benzina sul fuoco e facendo divampare il terrorismo; mentre ai crimini si risponde, cosa certo più difficile, con le indagini dirette a identificare e catturare i criminali. Chiamare atto di guerra un crimine significa abbassare lo Stato al livello dei criminali o alzare i criminali al livello dello Stato. E’ così che la logica della guerra ha fatto il gioco del terrorismo che appunto come “guerra santa” vuol essere riconosciuto.

Eppure l’informazione ha le sue esigenze.

Certo occorre informare, ma se lo scopo del terrorismo è produrre terrore è precisamente la sua spettacolarizzazione che realizza tale scopo.

Che ne pensa dello ius soli?

E’ un provvedimento assolutamente scontato e la discussione intorno allo ius soli sta rivelando il carattere puramente razzista dell’opposizione. Qui non abbiamo a che fare con immigrati, ma con persone che sono nate in Italia, hanno fatto in Italia i loro percorsi scolastici e sono quindi connazionali a tutti gli effetti.

L’opposizione a questa elementare misura di civiltà si spiega soltanto con l’intolleranza per l’identità etnica di queste persone, in breve con il razzismo. Non solo. Negando la loro italianità, che essi rivendicano con orgoglio, trasformiamo il loro senso di appartenenza al nostro paese in rancore antiitaliano. Il rifiuto della cittadinanza rischia così di trasformarli in nemici. Abbiamo qui il banco di prova del sottofondo razzista - più o meno consapevole - delle politiche di esclusione. Dobbiamo inoltre dare atto al governo della difesa, almeno finora, di questa elementare scelta di civiltà.

Quanto siamo vicini alla realizzazione di una cittadinanza globale?

Siamo lontanissimi di fatto, anche se l’uguaglianza, sul piano giuridico, è solennemente proclamata dalla Dichiarazione universale del ‘ 48 e dalle tante convenzioni, patti e trattati sui diritti umani. In breve: non siamo mai stati tanto uguali in diritto e tanto disuguali di fatto. Basti pensare che le otto persone più ricche del mondo hanno la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione, cioè di 3 miliardi e seicento milioni. Non c’è mai stata diseguaglianza di questo genere.

E’ possibile difendersi dal linguaggio d’odio senza restare impigliati nella rete della censura?

La libertà di espressione non consente né l’ingiuria né la diffamazione. Il vero problema è che l’anonimato della rete non consente di identificare, e dunque di querelare chi si rende colpevole di tali violazioni. E’ una materia che richiede ancora di essere studiata, soprattutto sul piano delle tecnologie informatiche idonee a impedire l’anonimato.