«Chi odia sul web è un soggetto con una credenza estrema che ha bisogno di sentirsi protagonista». Il professor Elia Annibale, ordinario di Linguistica e nuovi media all’università di Salerno, analizza il profilo degli haters del web e spiega che cosa muove il loro comportamento: «Il bisogno di esprimere un potenziale ideologico», nelle forme possibili grazie al cambiamento sociale e mediatico avvenuto negli ultimi quindici anni.

Professore, chi è l’hater del web?

E’ un soggetto che vuole sentirsi protagonista giornalisti o mediatico, perché messo in grado di parlare a molti grazie al web. Un soggetto che diviene tale a causa di una congiuntura storica di cambiamento: fino a poco tempo fa la possibilità di parlare a un pubblico indifferenziato era pre- rogativa dei produttori di comunicazione di massa come i giornali o la televisione. Oggi, invece, la diffusione pervasiva web ha fatto sì che chiunque può diventare protagonista di notizie. Si è capovolto il meccanismo: ciò che era prerogativa del giornalismo è diventata uno strumento a disposizione di ogni cittadino.

E’ bastato questo spostamento di prospettiva a determinare il fenomeno di oggi?

No, parallelamente è avvenuta anche una trasformazione a livello di comunicazione politica. Basti pensare al “picconatore” Cossiga o a Achille Occhetto, che parlava con la stampa prima che con il comitato centrale del Pci. La politica come il giornalismo ha subito un cambiamento epocale, che è sfociato nella creazione di partiti personali, basati sulle doti di comunicazione dei leader. Questa trasformazione nei mass media e nel mondo politico, cui si è sommata l’ipercentralizzazione delle capacità mediatiche del web, ha prodotto l’escalation di protagonismo che oggi permea il web.

Ma che cosa genera questo bisogno così spasmodico di commentare e condividere contenuti sul web, che poi sfocia in odio?

Per capirlo basta guardare l’infinità di commenti alle notizie sui siti online dei grandi quotidiani, che oggi sono una delle valvole di sfogo di un’ansia partecipativa degli individui. Prima, invece, era tutto più fisico: esistevano i partiti, le associazioni, si manifestava e ci si incontrava faccia a faccia anche in scontri violenti, con dure e nette separazioni ideologiche. Oggi, tutto questo potenziale ideologico si esprime sul web.

Senza alcuna differenza?

Al contrario con una differenza enorme. Allora un confronto faccia a faccia imponeva a chi lo cominciava di rischiare, esponendo la propria credenza. Sul web, invece, attaccare qualcuno mette molto meno a rischio - per non dire per nulla - chi lo porta avanti. Questo libera il potenziale di una credenza di costruzione fideistica: l’individuo è portato a esprimersi sul web in modo duro e violento e lo fa per sentirsi protagonista della notizia, anche solo per un momento. Un fenomeno, questo, che è esploso e di cui non credo ci libereremo.

Quindi questo odio è frutto di una ideologica?

Chi si esprime in questo modo sul web lo fa, in sostanza, perché è portatore di credenze e ideologie estremizzate e, in questo modo, ha la possibilità di sentirsi protagonista. Attenzione: non bisogna sottovalutare il fenomeno degli influencer nella comunicazione di massa, ovvero persone che, anche positivamente, hanno trovato il modo di monetizzare la loro presenza online e la loro capacità di generare interesse per ciò che scrivono e commentano.

E come si combatte questa spinta a sentirsi protagonisti attraverso l’odio?

Io credo che l’unica cosa da fare sarebbe che giornalismo e politica prestassero maggiore attenzione. I giornalisti, in particolare, dovrebbero essere coscienti che pubblicare sul web tre notizie di fila in cui si parla di stupratori stranieri, senza aggiungere nei pezzi che gli extracomunitari condannati per tale reato sono solo il 12%, è una miccia per l’odio in rete. Oggi, basta non aggiungere un dato comparativo per dare a un razzista, per esempio, lo spunto per esprimere odio attraverso commenti e insulti su Facebook. Commenti che, inoltre, vanno ad alimentare un calderone telematico pieno di parole con la stessa carica d’odio.

E’ possibile una risposta giuridica?

Io credo che la regolamentazione sia molto complessa, perchè si parla di eventi che viaggiano attraverso nuove tecnologie. Io credo che, prima di tutto, serva una risposta forte del giornalismo, perchè si sviluppi una cultura della comparazione e della complessità contro le cosiddette fake news.

Come si generano le fake news?

Sostanzialmente le fake news sono uno strumento che serve a generare comunicazione elettronica di odio. Sono fatte apposta: chi le scrive lo fa per destabilizzare qualcosa, come ad esempio le istituzioni, oppure contro qualcuno.

Lei crede che anche il linguaggio si sia estremizzato? I commenti online sono spesso infarciti di parolacce.

Io non credo. Il web non è altro che la banale amplificazione di ciò che accade nella società. Gli scambi di insulti e di violenza lessicale che si vedono negli incontri sportivi o nelle sedute parlamentari non sono molto differenti da ciò che si legge sul web e la liberazione data al turpiloquio deriva anche dal cinema e dalla televisione. In 15 anni abbiamo assistito a una escalation di volgarità, che però viene percepita come tale solo da una classe media. Un ragazzo, infatti, percepisce molto meno questo tipo di volgarità rispetto, ad esempio, ad una persona della generazione precedente.

Il G7 dell’Avvocatura dibatterà, all’interno del tema del “linguaggio dell’odio”, anche la questione della privacy. Lei ha parlato di bisogno di protagonismo: come si coniuga con la tutela dei propri dati personali?

La questione è molto complicata. Basti pensare che i Social Network, oggi, informano gli utenti che, iscrivendosi, accettano che i loro dati personali diventino pubblici. Gli utenti, quindi, sono disposti a cedere la loro privacy pur di mantenere i vantaggi che un Social Network garantisce loro. Il punto, dunque, è che a chi si vuole sentire protagonista non importa nulla di mantenere la propria privacy. Tanto più, se sa che attraverso il web è possibile diventare una star.

E dunque una riflessione è necessaria?

Certo, serve una riflessione culturale prima ancora che normativa. La tutela, infatti, passa per un cambiamento della cultura e soprattutto dell’approccio con i ragazzi più giovani su questo tema. La nostra società dovrebbe cominciare una riflessione profonda su che cosa significa essere immersi nel web. Anche perchè, oggi, le condotte ascrivibili a un reato sono circa il 6%, ma il restante 94% che non configura condotte dolose è comunque un comportamento che forma la cultura e la personalità degli individui.