Sia chiaro uno può anche sbagliare. Ma ad occhio e croce saranno vent’anni che circola la storia che ad incendiare i boschi ed a devastare le colline della Calabria, della Sicilia o della Campania siano ndrangheta, mafia e camorra. La leggenda assurda della mafia che incendia i boschi e i monti

Tuttavia, a memoria, non ci si ricorda di uomini delle cosche che siano stati arrestati e men che meno condannati per barbarie del genere. Non è un’esclusiva della Calabria dove la tesi circola da maggiore tempo. In Sicilia e in Campania si sentono le stesse cose da altrettanti anni. Tra squinternati, giovinastri, villeggianti incauti, pastori in cerca di pascoli, vigili del fuoco esaltati, il panorama ( il bestiario) degli incendiari è composito e multiforme, ma di mafiosi non si vede neanche l’ombra.

La qualcosa, alla lunga, non può restare priva di ricadute. O gli inquirenti sono degli inetti che non riescono a venire a capo della questione oppure, in genere, le mafie non c’entrano nulla. E poiché occorre scartare la prima ipotesi, tenuto conto del livello delle forze antimafia nel paese, la seconda prospettiva comincia a prendere piede in modo sostanziale. Non è una questione da po- co. Un conto è teorizzare una strategia mafiosa volta a depredare e deturpare il territorio, altro è dare la caccia ai portatori di microinteressi e microbisogni, quando non a dei veri e propri teppisti e mascalzoni. Si tratta di adottare strategie del tutto diverse, ricorrere a strumenti investigativi completamente nuovi. Ad esempio qualche drone gioverebbe più di cento intercettazioni.

Nel frattempo, invece, è tutto un teorizzare, ipotizzare, allarmare in vista di tenebrose trame mafiose che, alla fine, è il caso di dire, risultano fumose e prive di riscontri.

D’altronde bruciano la California, la Spagna, la Francia, la Grecia, il Portogallo, ed in modo anche più devastante che in Italia, e nessuno si azzarda a lanciare l’idea che le mafie italiane, espandendosi per il mondo, si siano messe a dar fuoco alle foreste di mezzo globo come se fossero in Aspromonte.

E’ all’incirca una sciocchezza e, come tutte, le superstizioni ha una matrice tutta italica. Il sillogismo è semplice: la mafia controlla il territorio in modo capillare, il territorio brucia, la mafia incendia il territorio. Naturalmente, come tutte le aberrazioni logiche, anche questa parte da un postulato opinabile, anzi da due. Non è più vero, e per fortuna da un paio di decenni, che le mafie controllino il territorio in modo così asfissiante e meticoloso, come in passato. Hanno strategie ed obiettivi diversi e il controllo è costoso e poco redditizio ormai. In secondo luogo il fatto che i boschi brucino non realizza alcun evidente interesse delle mafie che, difatti, nessuno indica con un minimo di precisione. Piuttosto, per molti decenni, i più importanti esponenti della ndrangheta amavano essere additati come i «re della montagna». Si facevano chiamare così i più pericolosi ras della ndrangheta reggina, tutti direttamente impegnati nell’industria boschiva che ha costituito, almeno nella Calabria aspromontana, la prima forma di imprenditoria mafiosa.

Dalla montagna e dal suo controllo la ndrangheta ha ricavato vantaggi enormi, si pensi soltanto alla stagione dei sequestri di persona e alle fasi iniziali dello stoccaggio della cocaina. In montagna, in fosse scavate nel terreno, la ndrangheta ci nascondeva persino il denaro. E poi è vero o no che i picciotti hanno invocato per decenni la protezione della Madonna della Montagna a Polsi? Basterebbe rileggere con attenzione il capolavoro di Gioacchino Criaco, Anime nere, per rendersi conto di quale rapporto ancestrale, interiore, anzi intimo leghi la gente di ‘ ndrangheta ( come tanti calabresi perbene) alla montagna e sbarazzarsi, così, di una certa allure che nasconde, da qualche tempo, le proprie inefficienze dietro lo spettro di una mafia purtroppo, a suo dire, imbattibile.

Sia chiaro, non si sono mai viste neppure coppole iscritte al WWF o versare contributi ad Italia Nostra, ma qui parliamo di interessi, di denaro, di progetti di egemonia che dovrebbero indurre i boss ad appiccare incendi qui e là in giro per il Mezzogiorno d’Italia. Tra parecchie dozzine di pentiti e decine di migliaia di intercettazioni, che nulla raccontano in proposito, gli unici a farsi beccare al telefono a parlare di fuoco e fiamme sono stati i vigili volontari di Ragusa per intascare dieci euro l’ora.

Siccome la storia prosegue, come detto, da troppo tempo è forse giunta l’ora di chiedere le prove a chi sostiene cose del genere. La pubblica opinione è ormai alluvionata dai “ragionamenti” degli inquirenti, avrebbe diritto anche alla dimostrazione di ciò che si sostiene. Se davvero ci fossero le cosche dietro la distruzione piromane sarebbe un fatto gravissimo, un vero e proprio attentato alla Repubblica. Un atto di guerra e, come ricordava Georges Benjamin Clemenceau, «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari», figuriamoci ad altri.