«Da domani, migliaia di detenuti parteciperanno con il digiuno, lo sciopero del carrello o il rifiuto di fare la spesa in carcere. Con la forza della non violenza». Così ha annunciato Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, nel corso di una conferenza stampa tenutasi davanti al carcere romano di Regina Coeli in occasione della visita di ferragosto di una delegazione della Carovana per la Giustizia all’istituto penitenziario. Dal 29 luglio scorso la Carovana ha percorso 14.000 chilometri, attraverso tutte le province della Sicilia, per raccogliere le firme sulla proposta di legge per la separazione delle carriere dei magistrati e chiedere al governo di andare avanti senza tentennamenti sulla riforma dell’ordinamento penitenziario attraverso la rapida attuazione dei decreti attuativi entro agosto e promesso dallo stesso ministro della giustizia Orlando durante un’intervista ai microfoni di radio radicale. La situazione nei penitenziari italiani, denunciano i radicali, si sta rapidamente deteriorando. «Il sovraffollamento – ha sottolineato Bernardini - è in rapida ripresa, con punte che in alcune strutture toccano il 200%. Condizioni inumane, già condannate in passato dalla Corte dei diritti europea. Per questo i detenuti lanciano, assieme a noi, la loro richiesta di ascolto. La scelta è quella del dialogo. Servono una maggiore possibilità di accesso alle pene alternative, più rapporti tra detenuti e familiari, più lavoro e studio in carcere, più cure». Ha osservato, sempre l’esponente ra- dicale, che nelle carceri italiane il 35% dei detenuti è in attesa di giudizio e che molti di loro saranno riconosciuti innocenti o comunque scarcerati in sede giudiziale. «In prigione - afferma Rita Bernardini - non ci sono né lavoro né studio, manca l’affettività, la salute e carente. Abbiamo bisogno di una riforma della giustizia che veda nel carcere soltanto l’ultima ratio. Anche nelle carceri lo Stato deve essere Stato di diritto, altrimenti non ha alcuna legittimazione» . Una battaglia che comprende anche l’abolizione dell’ergastolo ostativo e il superamento del 41 bis.

Il pensiero dei radicali va anche agli operatori delle carceri, agli agenti di polizia penitenziaria costretti a lavorare in strutture sovraffollate e fatiscenti e con turni massacranti. «C’è chi vorrebbe tornare a 20- 30 anni fa – ha sottolineato Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino - che gli agenti tornassero a fare semplicemente le guardie. Noi invece vogliamo ringraziare l’amministrazione penitenziaria, a partire dal responsabile Santi Consolo, che ha consentito il nostro ingresso in carcere. E grazie anche alla polizia penitenziaria, quasi tutta orientata al rispetto dei diritti umani. Agenti che suppliscono alle carenze dello Stato per far rispettare i diritti dei detenuti».

Intanto un segnale positivo giunge dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, che nella mattinata di ferragosto ha visitato il nuovo complesso del carcere romano di Rebibbia: «È un giorno di festa che accentua da una parte la difficoltà, l’impegno, il sacrificio per chi lavora, dall’altra per chi è recluso il dolore del distacco dagli affetti e di ciò che comporta la reclusione. Il principio della certezza della pena deve essere sempre accompagnato da umanità, dignità e rieducazione. Su questo punto di equilibrio lavoreremo anche nel redigere i decreti delegati che devono essere emanati a seguito della recente riforma dell’ordinamento penitenziario».

Nel frattempo, da ieri, è partita l’iniziativa nonviolenta del Grande Satyagraha (proseguimento di quello portato avanti per anni da Marco Pannella) e crescono le adesioni non solo individuali, ma soprattutto quelle collettive raccolte dai detenuti di diversi istituti penitenziari. Una iniziativa non violenta che consiste, come già annunciato dalla Bernardini, nel digiuno, lo sciopero della spesa e il rifiuto del carrello. In Italia, grazie all’intervento del Partito Radicale, i detenuti hanno imparato a utilizzare l’arma non violenta: quella di rivendicare i propri diritti attraverso lo sciopero della fame e, non da ultimo, i ricorsi alla Corte europea. Sono metodi non violenti e nello stesso tempo “pericolosi” visto che riescono a colpire la parte più sensibile dello Stato: i soldi dei contribuenti. È grazie alle loro denunce che il problema delle nostre carceri è diventato una questione europea. Ora, con lo sciopero della fame, i detenuti cercano un dialogo con le istituzioni e soprattutto delle risposte concrete.