«La forza di Renzi sta nell’assenza di alternative» : è un adagio che nella politica italiana viene ripetuto a macchinetta sin dalla mazzata del referendum e come tutti gli assiomi parte da una base reale. Per anni, nel Pd, Renzi è sembrato l’ultima spiaggia, l’àncora di salvezza oltre la quale s’intravedeva solo lo spappolamento. Era in buona misura vero a dicembre, lo è in parte ancora ma sempre mano. I politici, come Bersani ha insegnato al colto e all’inclita, mica passano il tempo a pettinare bambole. Gli scricchiolii nella piramide Renzi li sentono anche loro: pur con la dovuta cautela e senza per questo dover essere tacciati di vile fellonia alcuni si preparano, se mai si rendesse necessario, a raccogliere la corona del caduto.

La corona? Più precisamente le corone. Sono due infatti, riunificate per la prima volta nel centrosinistra proprio dall’ambizioso toscanaccio: la segreteria del partito e la guida del governo. Su quel versante della barricata non era mai capitato che un solo leader ricoprisse entrambe le cariche. Renzi lo ha fatto nel suo triennio di gloria e sogna di farlo ancora dopo le elezioni, ma se mancherà l’obiettivo, in realtà quasi proibitivo, difficilmente l’accoppiata si ripeterà.

Così a scaldarsi a bordo campo in vista dell’eventuale chiamata sono due diverse coppie, una pronta a subentrare al Nazareno, l’altra a piazzarsi a palazzo Chigi. In un caso, per la verità, non si tratterebbe di insediarsi ma solo di rinviare la sofferta preparazione degli scatoloni. Paolo Gentiloni è già premier e se le circostanze non permetteranno il rientro di Renzi in pole position per la presidenza del consiglio c’è lui. La forza d’inerzia gioca la sua parte: il conte è già premier, ha intessuto contatti dove contano, cioè soprattutto a Bruxelles, conosce la macchina, assicura continuità, è stimato nelle capitali.

Ma non c’è solo questo. Politicamente, Gentiloni viene dalla sinistra radicale, pupillo e gran protetto di Luciana Castellina, ma come tradizione familiare la sua è quella dell’aristocrazia vaticana. Pur non essendo cattolico ha ereditato i buoni rapporti con l’Oltretevere per legami di sangue e soprattutto ha ereditato un talento diplomatico felpato, mai sopra le righe, capace di lavorare con la dovuta discrezione ed evitare finché umanamente possibile i conflitti aspri e diretti. E’ la sua forza ma anche il suo limite in un Paese dove la voce grossa non è mai stata tanto popolare e la grinta sembra a molti più meritoria delle soffuse capacità diplomatiche. Per questo il rivale numero uno del conte Gentiloni è Marco Minniti. Famiglia di militari di carriera da sempre, già uomo di fiducia di Massimo D’Alema poi passato al renzismo dopo una sosta in area Veltroni, da tempo immemorabile uomo di raccordo tra il Palazzo e i servizi, Minniti è l’“uomo forte” del governo e grazie alla grinta si è conquistato una vasta popolarità trasversale, facilmente spiegabile in un Paese attraversato in lungo e in largo da riflessi d’ordine.

Renzi lo teme e lo sospetta di preparare la spallata dopo le elezioni siciliane ma probabilmente ha torto. Le carte vincenti di Minniti, cioè l’alto indice di gradimento, la popolarità anche a destra e secondo le malelingue una ricca messe di informazioni provenienti dai servizi, sono molto più utili nella partita che ha per posta palazzo Chigi. Minniti, del resto, è da sempre uomo di governo più che di partito. Se rappresenterà davvero una minaccia per Renzi ( e per Gentiloni) sarà dopo le elezioni politiche, non prima.

Sul tavolo della segreteria, in realtà, Renzi è tanto forte quanto debole su quello della presidenza del consiglio. E’ appena stato rieletto segretario con una maggioranza schiacciante e una partecipazione alle primarie trionfale. Per scalzarlo dal Nazareno non basterebbe una sconfitta alle politiche, e a maggior ragione nelle regionali siciliane: ci vorrebbe un disastro al di là di ogni previsione. In quel caso, proprio Graziano Delrio, cattolico, molto gradito al mondo dell’associazionismo e del solidarismo cattolico e di conseguenza anche nel Vaticano di papa Bergoglio, l’attuale ministro dei Trasporti è intimo di Renzi da sempre. Tra i due non sono mancati screzi e dissapori ma se fosse costretto a lasciare la segreteria probabilmente Renzi sosterrebbe proprio Delrio per la successione, con buone probabilità di successo.

Il rivale più temibile è il solo tra le stelle emergenti del Pd a non essersi “sporcato le mani” con i governi Renzi e Gentiloni, il che lo rende in un certo senso il classico Homo Novus. Per modo di dire perché Nicola Zingaretti, governatore del Lazio, è in realtà un politico di lunghissimo corso, in campo sin dai primi anni ‘ 80 nel Pci e vanta una carriera politica da funzionario del Pci della prima Repubblica.

Come governatore del Lazio, Zingaretti si è tenuto fuori dalle dispute di questi anni ed è riuscito a non compromettersi col renzismo senza mai figurare come oppositore del segretario. Senza mai puntare su exploit fragorosi, in stretta coerenza con la sua biografia politica tutta interna al partito, promette di uscire vincente dall’esperienza della presidenza del Lazio e la notorietà del fratello “Montalbano” certo non danneggia. Se si riaprisse la corsa alla segreteria, sarebbe certamente lui il leader su cui puntare per una sorta di “rivincita” dei Ds, messi all’angolo nell’era Renzi. Ma anche per sapere se questa partita si aprirà o no, come per dare il via alle danze intorno a palazzo Chigi, bisognerà aspettare le prossime elezioni. Il momento della verità, nel Pd, arriverà solo un attimo dopo l’esito di quel voto.