Elenca, argomenta e propone. A 85 anni Luigi Berlinguer, una vita tra il rettorato dell’Università di Siena, il Parlamento, il ministero dell’Istruzione e via delle Botteghe Oscure, non ha perso né forza né passione politica. Difende il Pd, perché «Se non lo avessimo fondato saremmo nel mezzo di un disastro politico irreversibile», parla al plurale «perché l’ideale è collettivo» e si prepara all’ennesima battaglia: «Qual è il nostro primo dovere morale? Vincere le elezioni, per i tanti che ancora sono con noi».

Come sta nel Partito Democratico chi, per generazione e vita politica, ha militato nel Partito Comunista?

Bene, se si ha il senso della storia. Mi piace essere chiaro. Io mi sento membro del Pd con una simile intensità e condivisione valoriale con cui mi sono sentito membro del PCI.

Eppure non le sembra così lontana quella stagione politica?

Ma lo è. Per questo è sbagliato tentare di costruire dentro il Pd un rifugio di nostalgici, una frazione di reduci. Io aspiro a che i grandi ideali di quel tempo - la coniugazione di uguaglianza e libertà - siano il cuore di tutto il Pd, con il superamento di questa inevitabile prima fase di assestamento e dopo la fusione di due sinistre politicamente e teoricamente così diverse.

Lei parla di prima fase di assestamento, ma c’è chi già suona la campana a morto di un partito fallito proprio nelle sue premesse iniziali.

Il mio giudizio è tranciante: chi sostiene il fallimento del Pd dice una fesseria. Purtroppo, in chi predica il fallimento c’è tutta la tipica vocazione italica a fare i vati del malaugurio. I fallimenti, però, si giudicano in tempi molto più lunghi di quelli lasciati al Pd. Certo il sentimento dominante è quello di una insoddisfazione, pur legittima, rispetto alla lentezza con cui si sta procedendo all’amalgama tra le diverse anime del nostro partito.

Il Pd ha ancora bisogno di tempo, quindi?

Un vecchio proverbio contadino dice: “Con il tempo e con la paglia maturano le nespole”. Ecco, il Pd ha ancora bisogno di tempo e di paglia. L’obiettivo oggi deve essere ambizioso e alto: dare un’anima e soprattutto una visione teorico- strategica unitaria al nostro partito. Del resto, ammetterà che quella del Pd resta un’esperienza ben originale.

Originale rispetto all’esperienza comunista?

No, originale oggi, in questa nuova fase. Mi spiego meglio: nel Novecento ci iscrivevamo a un partito perchè nella sua base ideale e nella sua elaborazione economico- politica ritrovavamo noi stessi. Così è stato per me quando ho preso la tessera del Pci: gli elementi ideali e ideologici pre- esistevano all’adesione del singolo. Nel Pd, invece, si ritrova una matrice comune nell’essere di sinistra, ma che cosa oggi questo effettivamente significhi va ancora definito e richiede un enorme sforzo di pensiero. Uno sforzo che però si sente con la stessa drammaticità non solo in Italia, ma in tutti i partiti socialisti d’Occidente.

E’ l’idea stessa di sinistra, quindi, ad essere in crisi?

Piuttosto a dover essere rinnovata. L’esperienza storica socialista sta mostrando il bisogno di un profondo rinnovamento, e a indicarlo sono le continue batoste elettorali. Dobbiamo dircelo: non è più possibile rispondere all’esigenza profonda di sinistra della società solo amministrando l’idea e l’esperienza socialista.

Partiamo dalle fondamenta, come si risponde a questa nuova esigenza?

Anzitutto ammettendo che sono cambiate le condizioni di base dell’identità socialistica: ieri era fondata sul conflitto tra capitale e lavoro e, inconfessatamente, sulla prevalenza dell’uguaglianza sulla libertà, forte di un’assolutezza del problema “lavoro” rappresentato dalla classe operaia. Questo armamentario teorico e culturale ha convinto finora miliardi di persone nel mondo, che hanno creduto in quel messaggio e hanno dato vita allo stato sociale. Tutto ciò, oggi, deve però essere aggiornato, riflettendo sui fattori della globalizzazione e dell’avvenuto sviluppo del reddito.

E questo non è stato ancora fatto?

No, e proprio questa staticità ha indebolito la proposta politica. Così alcune misure di equità hanno rischiato di divenire assistenzialismo, certi sindacati sono diventati invadenti rispetto al ruolo proprio della politica, mentre si sono affievolite alcune battaglie, come quella sulla piena occupazione. Attenzione, non è un giudizio liquidatorio il mio: oggi c’è bisogno più di ieri dell’aspirazione socialistica. Ma la grande sfida innovatrice è di coniugare libertà e uguaglianza, in modo che uno non prevalga sull’altro facendoci scadere nel liberismo o nell’autoritarismo egualitaristico.

Per un attimo sembrava che lei stesse per dare ragione ai teorici del fallimento.

No di certo. Guardi, dire che tutto è fallito significa cedere all’amarezza, che è fonte di rinuncia. Noi non abbiamo bisogno di amarezza, ma di essere severi con noi stessi e di darci una mossa, non per puro attivismo ma per puntare all’obiettivo politico più importante.

E qual è per il Pd l’obiettivo più importante?

Direi che oggi è vincere, è naturale. L’obbligo morale primo del Pd è vincere le elezioni ed è un obbligo che abbiamo nei confronti delle persone che ci seguono e non vogliono passare la mano alla destra oppure al vuoto onirico dei “5 Stelle”. E’ la nostra gente a imporci il dovere di vincere, non consumando il tempo che ci resta in stupidaggini e litigi.

È un appello all’unità in vista delle elezioni?

Lo dice come se fosse qualcosa di convenzionale e insincero. Io, invece, me lo sento tutto addosso questo compito, di dire agli elettori che noi del Pd il voto lo meritiamo. Che siamo sì un partito un po’ scalcinato, che ogni tanto ci piace usare male parole tra noi invece che nei confronti degli avversari. Ma che siamo un partito che va avanti. La primavera prossima si vota e noi abbiamo meno di un anno per fare una campagna elettorale intelligente, dando ragioni per votarci e dimenticando i fantasmi di fallimento.

Parlando di elezioni, proprio chi ha annunciato il fallimento del Pd ha poi deciso di consumare un doloroso addio.

Chi ha pronosticato fallimenti incarna la malattia storica della sinistra: lo scissionismo. A destra, infatti, non ci sono scissioni, perchè i moderati sanno scegliere meglio quello che vogliono. Noi a sinistra, invece, abbiamo una tale ansia di creare il nuovo, perchè siamo sempre insoddisfatti del presente, in cui riteniamo ancora alberghi iniquità e non siamo disposti ad accettarla: forse anche per questo ci disperdiamo un po’.

Parliamo della scissione, allora. Che cosa può succedere ora?

Le strade possibili sono due. Una segue l’idea socialista, ovvero continuare con un movimento che porti una maggioranza a cambiare il proprio paese, e dunque l’unica soluzione sarebbe quella di dire: “Il Pd è fallito, sciogliamolo e rifondiamo il Pd”. Rifare tutto di nuovo! Pensi che fantasia! In alternativa, può prevale la presunzione di ogni gruppetto, convinto ad essere l’unico in cui alberga la ragione, di essere l’unico nel giusto, e quindi scissione, fondare un altro partito. Anche qui, che fantasia… Così si alimenta il pulviscolo delle forze politiche. Tutto questo, badi bene, all’interno di una stessa anima collettivistica che nasce per superare l’egoismo individualistico: che contraddizione! Come dicevo, servono un po’ di paglia e un po’ di tempo, e sempre la disponibilità a costruire insieme.

Eppure anche lei, nel 1969, fu tentato dalla scissione con il PCI, insieme al gruppo che fondò il manifesto.

Molto critico, allora, ma scissione mai! Penso di aver avuto ragione. La scissione, è singolare, mi provoca l’orticaria.

Lei parla sempre usando il “noi”. Uno degli aspetti più irrisolti del Pd, però, è quello della leadership, e proprio questo ha portato alla scissione di Mdp.

Le mi sta chiedendo di Renzi? Io le dico che non lo avevo mai votato, prima di queste primarie. Prima di lui, mi ero espresso in favore di Bersani e di Cuperlo. Ora però dopo una convinta campagna per il Sì al referendum con lo slogan “voto sì malgrado Renzi”, al congresso ho votato Renzi malgrado Renzi. Lo ho fatto perchè, nonostante lui abbia oggi qualche ombra in più rispetto al passato, ho voluto partecipare per dargli un consenso forte e per certi versi inatteso, ma necessario a guidare il Pd. Capisco che Renzi non sia simpatico a molti, ma quei molti pensino che noi abbiamo prima di tutto un partito, e dobbiamo rafforzarne la leadership.

Veniamo ora al nodo centrale: lei dice che il Pd di Renzi ha l’obbligo morale di vincere. Ma con quali argomenti può convincere gli elettori?

Partiamo dal presente, in cui il governo Gentiloni e dunque un governo del Pd è ben visto da una gran parte del Paese. Il premier gode di stima e di credibilità e questi anni ci lasciano con un bagaglio di cose fatte: sono state approvate una serie di misure sui diritti individuali anche contro una freddezza del mondo vaticano. Economicamente l’Italia è ancora in affanno, ma il dato sull’occupazione e soprattutto su quella femminile è positivo. Ecco, non ci presentiamo a mani vuote all’elettorato, soprattutto se riempiamo positivamente questo anno prima delle elezioni, correggendo il correggibile.

E per il futuro, invece?

La sfida del Pd è quella di promuovere un grande progetto di governo del Paese, un progetto di vero cambiamento, che abbia l’obiettivo di farci vincere e che rappresenti in pieno la nostra identità di partito. Serve un progetto vincente, ambizioso e ricco di obiettivi da raggiungere. Innoviamo, creiamo una base programmatica per il prossimo quinquennio italiano, fatta di scelte politiche, economiche e istituzionali: un progetto, quindi, su cui e intorno a cui costruire la nuova identitá della sinistra, che incarni la nostra idea di società e il nostro Dna di forza politica. Questo chiedo al mio partito: cominciamo subito questo dibattito programmatico e identitario.

Il suo è un entusiasmo che sorprende. E soprattutto non rispecchia il comune sentire di almeno una parte della dirigenza del suo partito...

Ovunque ci sono i convinti ed i mosci. Temo un po’ “gli spiriti liberi” dell’amarezza e del disfattismo. Guardi, io so bene che abbiamo problemi al nostro interno, ma dobbiamo sentirci tutti addosso l’imperativo di riconquistare una parte dei nostri elettori che si sono messi a contare le stelle e si sono dovuti fermare al numero 5, troppo poche rispetto al firmamento. Per farlo servono argomenti seri e devo essere io per primo, da membro del Pd, a trovarli. L’atteggiamen-to deve essere politicamente costruttivo, sempre.

Lei parla con grande passione. Non l’ha mai persa, in una

vita di politica?

Alti e bassi, come tutti. Ma io prendo gusto a non mollare. Sa come ho fatto a conservare un po’ di passione? Prima di tutto credendo profondamente nelle cose che dico. Lo ripeto: io credo fino in fondo a tutto ciò che le ho detto in questa intervista. E poi perchè ancora oggi nel discutere, impegnarmi e fare politica mi diverto, mi diverto moltissimo, e io metto passione in tutto ciò che mi piace.