La brutalità degli omicidi di San Marco in Lamis ci richiama a distinguere tra eccezionalità mafiosa e delitti comuni. La mafia è mafia la corruzione è un’altra cosa

San Marco in Lamis ci ha ricordato che la mafia esiste. Il paese è stato brutalmente svegliato dalla illusione che la mafia fosse stata sconfitta o, quantomeno, fortemente indebolita. Di qui un coro di voci tese ad affermare che oggi la mafia si è trasformata. La nuova mafia usa le armi della corruzione ed è, perciò, la lotta alla corruzione la nuova frontiera della lotta alla mafia. Con un chiaro progetto: estendere la legislazione speciale per la lotta alla mafia ad un numero sempre più ampio di reati. L’effetto sarebbe quello di trasformare il paese in uno stato di polizia. Chiedere il rispetto dei limiti dello stato di diritto non significa, è bene sottolineare, essere accondiscendenti con l’illegali- tà, ma stare attenti a che non sia alterato un corretto rapporto tra stato e cittadini. È quello che ci ricorda la lettura del fortunato libello ' dei delitti e delle pene' di Cesare Beccaria, che questo giornale ripropone ai suoi lettori in questo mese di agosto.

La brutalità di quanto avvenuto a San Marco in Lamis costringe tutti a recuperare il senso delle proporzioni. La legislazione antimafia viola, sotto molti aspetti, i principi dello stato di diritto. La sua forte, eppure discussa, giustificazione sta nella necessità per lo stato di disporre di strumenti di contrasto adeguati alla eccezionalità di un sistema criminoso che si erge a soggetto istituzionale alternativo, capace con la violenza e l’intimidazione di assoggettare alla propria volontà un territorio. Gli omicidi di San Marco in Lamis, che annoverano tra le vittime anche due innocenti agricoltori colpevoli solo di essere stati testimoni, dicono che le ragioni di quella legislazione speciale sono serie. E ci dicono, soprattutto, che la mafia non è stata né sconfitta né indebolita. Forse quella siciliana ha avuto dei colpi. Ma le altre mafie, calabrese, napoletana, pugliese, albanese, cinese, vivono e prosperano sul territorio italiano con tutto il loro potenziale di violenza e di sopraffazione.

Bisogna, allora, prendere atto che l’esercizio intellettuale, che si è registrato da qualche tempo a questa parte, e che si è intensificato negli ultimi mesi, volto ad individuare altri bersagli da colpire come mafiosi, ha avuto un effetto: togliere risorse ed energie alla lotta alla mafia, considerata come un territorio già conquistato e finito nelle retrovie.

Perché tutto questo? Un sospetto c’è. La lotta alla mafia non ha più un dividendo politico alto se usata quale strumento per infangare gli avversari. E’ finita l’epoca dei processi ad Andreotti ed a Mannino. Molto più redditizia la lotta alla corruzione, che consente di travolgere gli avversari, rendendo irrilevanti le successive assoluzioni. In questo Mani Pulite è stata esemplare, avendo consentito di spazzare via un intero ceto politico a prescindere dalle effettive responsabilità individuali. Ma proprio il ricordo di Mani Pulite evoca una immagine. Nei giorni, nei mesi, negli anni in cui la giustizia spettacolo offriva in pasto all’opinione pubblica l’immagine dei più importanti dirigenti del paese in manette, le strade dell’Italia erano vergognosamente invase da migliaia di giovani ragazze dell’est, costrette a prostituirsi da organizzazioni senza scrupoli e, soprattutto, libere di agire. La lotta a questa forma di schiavitu non avrebbe dato dividendi politici, né notorietà né onori.