Intolleranza, sospetto, paura. E’ un vento insidioso quello che soffia oggi sull’Italia. L’arrivo di una quantità “eccessiva” di migranti desta timori ancestrali ed evoca il fantasma dell’” altro”, dell’usurpatore, dello straniero. Essere cittadini d’Europa deve avere insegnato ben poco se alla parola multicultura sono ancora in molti “a mettere mano alla pistola”. Così che il passaggio dalle armi alla parola diventa uno snodo cruciale. E tanto più importante diventa imparare a calibrare l’uso del linguaggio, perché spesso è proprio quello il discrimine che separa una fase inevitabilmente densa di timori dall’esplosione di una vera ondata di razzismo.

Amos Luzzatto, ex presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, è un’autorità in materia, per molte ragioni. Perché come ebreo cresciuto negli anni della campagna razziale è stato lui stesso l’” altro” e perché, avendo studiato nell’allora neonato Stato di Israele, sa cosa vuol dire amalgamare culture tanto diverse quanto lo erano quelle che dalla diaspora confluirono in un unico Stato.

Professor Luzzatto, oggi in Europa e forse particolarmente in Italia l’immigrato è vissuto come “l’altro”, una categoria che l’ebraismo conosce assai bene. Lei riscontra vere componenti di odio nel linguaggio utilizzato nei confronti degli immigrati?

Più che di odio, io parlerei di diffidenza, ma anche di indifferenza. E’ un po’ la stessa cosa che gli ebrei vissero sulla propria pelle durante gli anni delle persecuzioni razziali e della Shoah. Del resto l’indifferenza alimenta il pregiudizio e viceversa.

Eppure il tema dell’identità nazionale è tornato ad affacciarsi con un certa prepotenza. E’ in nome della salvaguardia di tale identità che qualcuno arriva a chiedere addirittura la chiusura delle frontiere...

Siamo in Europa – o almeno dovremmo esserci – e c’è ancora chi si appella a simili princìpi... Del resto non posso dire che mi stupisca, considerato quanto poco conosciamo delle realtà che si affacciano sul Mediterraneo o del Medio Oriente e persino della stessa Europa.

Dunque secondo lei questo diffuso timore per la perdita dell’identità è infondato?

L’identità non è mai una qualità elementare, unica e senza sfaccettature. Confluiscono nell’identità di un gruppo umano tradizioni locali e generali, linguistiche e religiose. Esattamente come la “razza pura” non esiste ed è solo una pericolosa premessa funzionale all’esercizio dell’arbitrio, dell’oppressione e infine dello sterminio fisico, altrettanto deve dirsi per l’identità di gruppo e per l’identità religiosa, per quella regionale e per quella nazionale. Non esiste una identità pura. Essenza e purezza sono concetti propri della chimica e della farmacologia dove sono definibili operativamente.

Parlare di uomini e donne in carne e ossa è un'altra cosa...

Appunto. Quando trattiamo di gruppi umani, di correnti di pensiero o di manifestazioni culturali dobbiamo riconoscere che, per nostra fortuna, siamo miscelati, interconnessi e subiamo influenze reciproche. E’ il concetto di identità che va rivisto e cambiato.

In direzione di una sorta di identità pluralista?

In direzione di un pluralismo operativo che promuova l’originalità delle culture nel dialogo, nell’intreccio e nella convivenza. Dobbiamo scoprire la ricchezza della varietà umana perché è persino nella tensione fra componenti interne di una stessa cultura che si producono le novità più interessanti. Varietà umana significa vedere e valorizzare la ricchezza delle “altre” culture, delle altre lingue, delle altre Fedi. Significa la libera circolazione delle idee, senza opporre ostacoli, neppure economici. Significa anche, infine, intendere il dialogo, il confronto e la trattativa come unici strumenti che possono risolvere i contenziosi umani, proibendo, come reato, qualsiasi ricorso alla violenza.

Pensa che lo ius soli possa avvicinare una soluzione?

Ritengo lo ius soli una dimostrazione di debolezza: il tentativo di prospettare un meccanismo automatico in base al quale il solo fatto di essere nato in un certo territorio ti attribuisce una certa posizione.

E dov’è l’elemento di debolezza?

Quando sono arrivato, tredicenne, nella futura Israele mi ci sono naturalmente riconosciuto. Questo non solo perché ebreo ma perché lì esisteva un ambiente caratterizzante e dotato di strutture predisposte a quello scopo. Sarebbe interessante vedere quello che c’era lì per capire quello che non c’è qui, per mettere a fuoco quanto la nostra società sia davvero aperta e quanto le nostre strutture sociali consentano una soluzione di questo tipo.

Allude alla necessità di costruire strutture favorevoli all’Integrazione invece che al respingimento?

Ogni idea di respingimento, e più che mai la fantasia di chiudere le frontiere, è a sua volta un segnale di debolezza. Si continua a pensare al tema dell’immigrazione in termini di ordine pubblico e non di soccorso pubblico. Si è incapaci di comprendere che “civiltà” significa innanzitutto il procedere del consorzio umano dalla legge del trionfo del più forte a quella del supporto per i più deboli, dalla soppressione del rivale al principio della solidarietà.

Professor Luzzatto, cosa si aspetta dalla scuola in questo delicatissimo passaggio?

Prima di tutto mi aspetto che la scuola sia in grado di far maturare adeguatamente i futuri cittadini di questo Paese, di far sì che essi diventino – di fatto e non solo di nome– cittadini europei.

La scuola come maestra di cittadinanza?

Vede, cittadinanza vuol dire molte cose. La prima è che, quando si esce dalla scuola e si è invitati a votare, bisognerebbe essere già in possesso di tutti gli strumenti necessari a conoscere i propri diritti e i propri doveri, gli argomenti sui quali si è chiamati ad esprimersi, le motivazioni che animano le differenti posizioni.

Non le pare di chiedere un po’ troppo?

Ho studiato in una scuola ebraica sperimentale a Gerusalemme. Era l’epoca della II guerra mondiale, quindi non proprio l’altro ieri. Ebbene, in quella scuola era stato istituito l’insegnamento di una nuova disciplina che si chiamava per l’appunto “Cittadinanza”.

Una materia in più da studiare?

Una materia che ci metteva nelle condizioni di poter intervenire sulla realtà per modificarla, che ci consentiva di conoscere i meccanismi di funzionamento della società, delle legislazioni, della divisione e della dialettica tra i tre poteri.

Nel frattempo però, come lei stesso dice, è passato molto tempo. Lo stato nazionale ha fatto il suo tempo e la dialettica tra una maggioranza autoctona sempre più identitaria e una minoranza che viene da lontano pone nuove questioni...

Uno dei modi per affrontare quelle questioni è abbandonare per sempre l’uso di termini come maggioranza e minoranza. Si tratta di termini numerici e a carattere temporaneo. Continuare ad utilizzarli vuol dire ammettere che, a poca distanza da noi, questi stessi termini si rovesciano. Piuttosto bisognerebbe parlare di componenti avendo ben chiaro che nessuna di tali componenti può pretendere di essere “unica e unitaria” per grazia di Dio e volontà della nazione. Il pericolo è quello di non comprendere una realtà in continua trasformazione. E soprattutto di non comprenderne la ricchezza.