È stato un soldato per Terrence Malick, un pianista per Roman Polanski, un punk per Spike Lee, Salvador Dalì per Woody Allen ed un villain “divertente” per Wes Anderson. Dall’età di 12 anni Adrien Brody si è distinto nel grande cinema hollywoodiano per la sua capacità di immersione totale in un personaggio ed a soli 27 anni, nel 2003, grazie alla sua struggente e intensa interpretazione del compositore Wladyslaw Szpilman in Il Pianista ha vinto il Premio Oscar. La sua presenza al 70esimo Locarno Festival è stata l’evento del primo week end della manifestazione che lo ha premiato con il Leopard Club Award ed omaggiato proprio con la proiezione di Il Pianista. Sotto il caldo torrido che caratterizza queste giornate di agosto e che non ha risparmiato di certo la Svizzera, Adrien Brody si è raccontato, messo in discussione e rivelato in un dialogo aperto con stampa e pochi fortunati dal pubblico. In questo viaggio di domande e risposte che parte dagli inizi della sua carriera, ha come punti di riferimento saldi i suoi genitori Sylvia Plachy, giornalista e fotografa, con lui a Locarno a testimoniare ogni movimento ed Elliott Brody, e che analizza il suo approccio alla recitazione e ciò che l’arte di cambiare pelle può insegnare, Adrien Brody diventa sempre più uomo vicino agli uomini e sempre meno divo hollywodiano.

Ci racconta la sua collaborazione con Spike Lee in S. O. S. Summer of Sam?

Summer of Sam è arrivato agli inizi della mia carriera. Per chi non lo ricorda, è ambientato nell’estate del 1977 a New York dove un serial killer dal nome di Son of Sam seminò il panico in città. Nel film io interpreto un giovane punk del Bronx il cui aspetto differente dal resto dei ragazzi del quartiere lo rende il principale sospettato. Ora, la trama del film mi aiuta a spiegare ancor meglio ciò che mi motiva a scegliere un ruolo e ho scelto di fare questo film perché attraverso questo personaggio si poteva far riflettere lo spettatore su quanti giudizi le persone esprimono in base a fine verità superficiali come “Lo straniero è sempre un pericolo per la società”. Spesso è la persona dall’aspetto più normale e non quello “strano” ad essere il vero pericolo.

Possiamo considerare Piccolo, grande Aaron di Steven Soderbergh come il suo vero inizio?

Certo, quella è stata la mia grande occasione ma ho incominciato a recitare professionalmente quando avevo 12 anni e il primo film che feci fu per la tv. C’era un solo ruolo da protagonista e mio padre, portandomi al provino mi diede il miglior consiglio di sempre: «Vai lì e comportati come se già avessi la parte». Mi ricordo che questa indicazione fece in modo che non prendessi più in prestito del materiale altrui, interpretando qualcuno ma comprendessi che dovevo rendere me stesso quel personaggio. Da allora, questo è sempre stato il mio approccio.

Approccio che ha fatto la differenza nel film che le ha fatto vincere l’Oscar, Il Pianista?

È stata una di quelle uniche opportunità che la vita ti offre e probabilmente la più grande responsabilità che io potessi prendermi come attore. Ho dovuto impersonare qualcuno che non solo è sopravvissuto alle atrocità della Seconda Guerra Mondiale e l’Olocausto ma è riuscito anche a scrivere delle memorie bellissime. In più il regista Roman Polanski ha unito a quella storia, quella sua personale, la sua diretta sofferenza, riuscendo a trasformare e portare nel film, in maniera generosamente artistica e senza sentimentalismi, la sua esperienza tragica. Avevo 27 anni all’epoca del film e lavorare a Il Pianista mi ha donato una prospettiva diversa sulla vita: la sensazione di disagio fisico passa ma la memoria del dolore emotivo e gli aspetti psicologici ad esso legati invece incidono profondamente e permanentemente su ognuno di noi. Ho dovuto portare con me quel carico emotivo per moltissimo tempo.

Come ci si sente invece a far parte della grande famiglia di Wes Anderson?

Sono stato diretto da Wes in Il treno per il Darjeeling, Grand Buda-

pest Hotel ed ho prestato la mia voce per Fantastic Mr Fox, considero un grande privilegio l’essere stato accolto nel suo mondo. È un grande amico e confidente ed è stato il primo regista che mi ha permesso di essere divertente. Prima che arrivasse lui, mi venivano proposti sempre e solo ruoli drammatici e tragici e lavorare con Anderson è stato liberatorio perché sapevo di essere anche capace di portare risate e leggerezza in un film.

Per King Kong di Peter Jackson ha dovuto lavorare con il green screen, com’è stato?

Se, come nel caso di King Kong, si hanno l’immaginazione, le risorse economiche e le persone con un’abilità tecnica tale da supportare la tua visione, non c’è niente che non si possa fare. Pensiamo al lavoro di Christopher Nolan per esempio e come egli sia riuscito ad espandere la narrazione oltre ogni risultato possibile grazie alla tecnologia, trovando un equilibrio perfetto. King Kong è stato molto emozionante, interagisci e rimani coinvolto da creature dalla personalità così sfaccettata ma che in realtà non esistono nella vita reale. Tutto questo succede anche grazie a grandi attori come Andy Serkis. A lui dobbiamo l’interpretazione di King Kong o Gollum ( Il signore degli anelli).

Come si è trovato a lavorare con Dario Argento in Giallo?

Mi sono divertito tantissimo, sono sempre stato un suo fan. Dario è una persona molto gentile nonostante gli piaccia smembrare le persone nei film. Quando ho avuto la parte in Giallo, mi ero ripromesso di impegnarmi a rendere il tutto il meno sanguinoso e violento possibile. Ma poi una volta che sei li, ti disconnetti da tutto il resto e passi il tempo con colleghi che magari pochi minuti dopo, nella prossima scena, verranno fatti a pezzi o assassinati. C’è sempre la sospensione di incredulità sia per lo spettatore tipico di questi film che per l’attore.

Dopo aver diretto il documentario Storn Barn Castle, dirigere un lungometraggio sarà l’inevitabile passaggio successivo?

Ho fatto una lunga pausa dal cinema, circa due anni, perché mi sono talmente innamorato dell’arte che ho deciso di dedicarmi alla pittura senza distrazioni. Ora che sono tornato al cinema, spero che arriverà presto il momento giusto per cui il mio passaggio dietro la macchina da presa sarà inevitabile.