Censire le parole dell’odio circolanti in Italia e cercare di classificarle come primo passo per analisi ulteriori è l’obiettivo di questa nota, un contributo strettamente linguistico all’impegnativo e ben più vasto lavoro della Commissione.

Anche nell’odio le parole non sono tutto, ma anche l’odio non sa fare a meno delle parole.

Di queste parole dell’odio e dell’intolleranza il catalogo può essere forse istruttivo ma a tratti è ripugnante. Per renderne meno sgradevole la eventuale lettura c’è all’inizio una allegra e filosofica filastrocca di Rodari e alla fine il richiamo a due testi quibus maxima debetur reverentia:

i nostri codici e il catalogo di Evagrio.

Gianni Rodari, con una sua filastrocca diventata famosa specialmente nella versione musicata e cantata da Sergio Endrigo, ha dato quella che si potrebbe dire con pomposità tecnica una lessico- semantica in prospettiva pragmatica. Ne riporto qui il testo nella versione cantata: Abbiamo parole per vendere, / parole per comprare, / parole per fare parole. / Andiamo a cercare insieme / le parole per pensare.

Abbiamo parole per fingere, / parole per ferire, / parole per fare il solletico. / Andiamo a cercare insieme / le parole per amare.

Abbiamo parole per piangere, / parole per tacere, / parole per fare rumore. / Andiamo a cercare insieme / le parole per parlare.

Ci si propone qui di censire, con speciale riferimento all’italiano, “ le parole per ferire”. È la categoria che almeno in parte va da tempo sotto il nome di hate words. Sotto questa voce Aaron Peckham ( Urban Dictionary: Fularious Street Slang Defined, Andrews McMeel, 2005) dà la seguente definizione: «Le parole dell’odio sono, come spiega il nome, parole piene d’odio che causano dolore, perché sono dispregiative per loro natura. Sono le peggiori parole da usare, specialmente se fai parte di un gruppo che ha un potere di prevaricazione su un altro gruppo, il quale ha meno potere a causa del suo essere minoranza o del suo essere storicamente discriminato. ( Per esempio gli eterosessuali sugli omosessuali, i bianchi sulle minoranze razziali, gli uomini sulle donne, i cristiani sulle altre religioni, gli abili sui disabili etc). Esempi: negro, frocio, puttana, mignotta, ritardato, troia, cagna, giudeo.» Per quanto già ampia, la definizione pare ammettere un utile ampliamento che prenda in considerazione anche parole che non siano “derogatory in nature” ( cioè, parrebbe di poter dire, che non siano stabilmente tali nel sistema e nella norma di una lingua), ma che tuttavia nell’uso si rivelano eccellenti “parole per ferire” in una parte rilevante dei loro impieghi. Diciamo in una parte rilevante dei loro impieghi, perché nel concreto dell’esprimersi può accadere che qualsiasi parola e frase, del tutto neutra in sé, in circostanze molto particolari possa essere adoperata per ferire.

In un sempre istruttivo libro di Clive S. Lewis, Le lettere di Berlicche ( The Screwtape Letters) , Berlicche nella traduzione italiana, ricorda a un junior temptor, Wormwood, Malacoda in italiano, un giovane diavolo tentatore alle prime esperienze tra gli umani, gli ottimi effetti sulla via della dannazione che i tentatori possono ricavare dal far dire a qualcuno, specie in famiglia, frasi di apparente assoluta innocenza che però feriscono gravemente e vogliono ferire chi le ascolta ( il coniuge, un parente stretto): «Brava, hai preparato il tè» ( ossia: cretina, sei la solita peciona, sono le sette, renditi conto, stupida, che ormai è quasi ora di cena e per il tè siamo in ritardo di due ore). Risentimento della peciona, controrisentimento del marito che si appella all’innocenza della frase, eccellente astioso litigio sul nulla o quasi e preziosa fonte di odio.

Nell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht in una scena madre la signora di aspirazioni aristocratiche insulta Jenny Diver, una prostituta, gridandole: «Puttana!». E Jenny con calma le risponde con uno sferzante «Signora!». Ma già Dickens si era divertito a osservare quanto a volte potesse essere ingiurioso l’uso allocutivo, vocativo, di Mister, Signore.

Una fondata indagine comparativa sugli hate words nella varie lingue è desiderabile, a smentire l’ipotesi che la schiera sia particolarmente folta in italiano a causa del vivace apporto di parole d’origine dialettale e/ o regionale ( un’origine ormai dimenticata per i parlanti e relegata nelle etimologie solo nei dizionari più attenti): di esse lo standard si è nutrito a mano a mano che la lingua nazionale veniva comunemente usata nel parlare già dal tardo Ottocento e ancor più nel Novecento.

Nell’attesa è possibile qualche osservazione. La definizione di hate words data da Peckham è un passo avanti rispetto allo stato delle ricognizioni in varie lingue. L’attenzione dei repertori si concentra su due poli: da un lato gli insulti volgari, le male parole, in genere legate a materie escrementizie e attività sessuali tabuate, swear words, four- letters

word, dirty words in inglese, i gros mots, le insultes e injures in francese, le blasfemias e gli insultos in spagnolo, gli unanständige Wörter in tedesco; dall’altro le parole su cui la political correctness ha portato l’attenzione, designazioni insultanti di categorie deboli o tali ritenute.

La definizione di Peckham considera unitariamente questi due insiemi stante la comune possibilità di usarle per esprimere odio verso persone. Tuttavia esiste una vasta categoria di parole che non sono in sé volgari insulti né sono parole riconducibili a stereotipi etnici e sociali. Si stenterebbe a rintracciare volgarità o stereotipi discriminatori in parole come bietolone, bonzo, lucciola, parrucchiere, che tuttavia in italiano sono usate anche come insulti efficaci.

Come si vedrà, anche i nomi di categorie socialmente rispettate possono essere punto di partenza di espressioni ingiuriose. Queste poi non sono solo quelle che colpiscono persone, occorre considerare anche quelle che qualificano negativamente situazioni ( pasticcio, sconcezza), ciò che naturalmente si riverbera poi sulle persone implicate.

E dunque nel censimento che qui si è cercato di fare le “parole per ferire” sono anzitutto quelle che sono tali con tutta evidenza nel loro valore generale, tipicamente i derogatory words ( barbaro, imbecille, fesso per citare per ora le meno indecenti), ma anche, oltre le parole portatrici di stereotipi ( baluba, omo), altresì parole di valore prevalentemente neutro che, tuttavia, presentano accezioni spregiative e sono in tali accezioni eccellenti insulti ( accademia, maiale, pappagallo, professore) come spesso viene rivelato da alcuni derivati che selezionano e mettono in luce l’accezione negativa ( accademismo, maialata, pappagallismo, professorale).

Fonti primarie della ricognizione sono state il GRADIT, Grande dizionario italiano dell’uso ( nella sua seconda edizione in otto volumi, UTET, Torino) che allo stato è la più ampia fonte lessicografica su carta, e il Dizionario on line di Internazionale. Va avvertito tuttavia che rispetto alle due fonti sono state lasciate da parte parole che, pur segnalate come spregiative, sono tuttavia marcate anche come obsolete o puramente letterarie o di basso uso ( per es, abbarcarsi, arrendatario, bellospirito, cantalluscio, delittore) e sono state invece recuperate e qui censite diverse parole che, come già accennato, pur non marcate come spregiative o stereotipiche, nell’uso sono utilizzate “per ferire”, tra altre sono tali tipicamente parole che identificano autori di reati, come assassino o ladro. Ancora qualche avvertenza per chi dovesse leggere questo inventario. Per limitare le ripetizioni le singole parole in generale figurano una sola volta nella prima delle classi in cui sono citate, ma ben figurerebbero anche in altre. Alcune parole sono accompagnate da glosse che tra virgolette chiariscono l’accezione particolare per cui figurano in una categoria. Con parsimonia ricorrono abbreviazioni come piem., lomb., tosc., rom., napol. ecc. che individuano l’area regionale di origine di una parola in un modo abbastanza trasparente.

Parole o accezioni evocanti stereotipi negativi.

Circa duecento lemmi delle fonti lessicografiche attestano parole che possono evocare uno stereotipo ne- gativo e che possiamo definire “parole per ferire a doppio taglio”, in quanto offendono una persona o un oggetto o attività ma anche evocano offensivamente un’intera categoria. Vengono anzitutto gli etnici ( sostantivi e aggettivi), cioè nomi di un popolo straniero, spesso lontano e mal noto, usati per offendere una persona: albionico “britannico” “perfido”; americanata “grossolanità vistosa e superficiale”; ascaro “seguace di basso rango”; baluba lomb. “persona rozza e incivile”; barbaro ( una sorta di iperonimo generalissimo, ereditato dalle lingue classiche), “rozzo, incolto”, ma anche “feroce, crudele, efferato”; beduino “incivile”; calmucco “persona goffa o imbacuccata in modo ridicolo”; bulgaro “che presenta caratteri di statalismo ottusamente burocratico e poliziesco”; cinese “scritto, scrittura, discorso incomprensibile”; crucco, dal serbocroato kruh “pane”, nomignolo dato da soldati italiani prima ( 1939) ai militari altoatesini e trentini, poi ( 1942) anche agli slavi meridionali, infine generalmente ai tedeschi; dego in Canada e Stati Uniti “immigrato spagnolo o italiano”; ebreo “avido di guadagno”; franceseria “ostentazione di modi francesi”, infrancesare; giallo “orientale”; giudeo “ebreo”; guascone “spaccone”; inghilesarsi, inghilesco, inglesarsi; italiese, italiesco, italiota; levantino “astuto”, levantinismo; mammalucco “sciocco” ( nome di una milizia turca battuta da Napoleone); mongolo e mongoloide “idiota, deficiente”; negro, nero; ostrogoto “rozzo, incivile”; ottentotto “rozzo, incivile”; scozzese “avaro”; unno; vandalo; watusso “rozzo, incivile”; zingaro “persona senza fissa dimora o dall’aspetto trasandato e sporco”; zulù “rozzo, incivile”. Un secondo gruppo è dato da sostantivi o aggettivi tratti da nomi di regioni o città italiane e impiegati in modo spregiativo: bassitalia “meridionale”, burino “rozzo, maleducato”, gabibbo lig. “meridionale”, genovese “avaro”, marocco “africano”, maumau “meridionale”, napoli “napoletano, meridionale immigrato nel settentrione”, polentone, terrone.

Terzo gruppo: parole ( sostantivi, aggettivi, talora verbi) indicanti una particolare professione o attività o socialmente disprezzata oppure non disprezzata, almeno in genere, ma considerata sotto un particolare profilo valutato negativamente: accademia “chiacchiere inutili e pretenziose”, accademico “pomposo, verboso”; ammazzasentenze “giudice incline ad annullare giudizi di gradi inferiori”; avvocato con avvocateggiare, avvocatesco, avvocaticchio, avvocatucolo, avvocatuncolo ( altri epiteti e nomignoli per mediocri avvocati: leguleio, paglietta, parafanghista “avvocato dedito a cause per incidenti stradali”); ayatollah “fanatico”; barotto piem. “contadino”, anche agg., “rozzo”; beccaio “carnefice”, “cattivo chirurgo”; beccamorto; biscazziere; bonzo “monaco buddista” ma anche “persona, specie autorevole, che si comporta con eccessiva e ridicola solennità”; bottegaio; burosauro “alto burocrate”; cafone ( originariamente e in dialetti meridionali “contadino”); caporale “militare di minimo grado nella gerarchia militare capo di una piccola squadra di uomini”, “persona prepotente, autoritaria” come evidenziano i derivati caporalesco “prepotente, autoritario” ( diffusosi dal 1914– 15 con l’inizio del conflitto mondiale), caporalescamente, caporalismo ( l’accezione è alla radice del celebre dilemma di Totò: “Siamo uomini o caporali”); carrettiere “volgare, sgraziato” anche “ignorante”; cattedratico “che ostenta inutile erudizione”; cavadenti “dentista di scarso valore”; cavasangue “medico di scarso valore”; conciaossa “chirurgo di scarso valore”; pescivendolo; politico coi derivati politicante, politicantistico, politicastro, politicheggiare, politicismo, politicistico, politicume; portiere, portiera “persona pettegola”, portinaia “donna pettegola”; (...)

Diversità, difetti, mancanze rispetto a quel che appare normale

In particolare le diversità di abilità, sono individuate da parole che, anche se in origine neutre e tecniche, sono spesso avvertite come ingiuriose e usate stereotipicamente come tali. Distinguiamo qui di seguito tre gruppi.

Parole per diversità e disabilità fisiche: antropoide, abnorme, bamberottolo, brutto, cecato, crozza, deforme, gibboso, gobbo, handicappato, minorato, nanerottolo, (...) Parole per diversità e disabilità psichiche, mentali, intellettuali: analfabeta; babbeo, babbalucco; balordo; bambinesco; beota; (...) cretino, deficiente; ebete; idiota, idiozia; ignorante; imbecille; inetto anche in senso morale e intellettuale; inintelligente ( parola cara a Benedetto Croce); macrocefalo; mentecatto; microcefalo; puerile; ritardato; spaghettaro “cialtrone inconcludente” ( usato da Alberto Arbasino); stolido; subnormale; testone; tonto; umanoide.

Parole per difetti morali e comportamentali: abietto, bandito, bigotto o bizzoco “persona che ostenta l’adesione a pratiche religiose”, becero, briccone, brigante, buffone, bugiardo, cialtrone, delinquente, disdicevole, disetico ( usato da Carlo Emilio Gadda), disgraziato “privo della grazia divina, moralmente turpe”, disonesto, dissoluto, fannullone, farabutto, fetente, spregevole, squallido, tristo, triviale, truffatore, turlupinatore ( da turlupinare “imbrogliare”, che è da turlupino “seguace di setta predicante la povertà evangelica e praticante dissolutezze”), turpe, vagabondo, voltagabbana, zozzo con zozzone e zozzeria di area romana.

Parole denotanti inferiorità socioeconomica: affamato ( e morto di fame), biotto ( area settentrionale), cacino ( area toscana), disagiato, emarginato, escluso, gramo, infelice, misero, meschino, miserabile, pezzente, pitocco col derivato pitoccare “chiedere l’elemosina”, povero, tapino, straccione. (...)

I codici ed Evagrio

Infine due gruppi di parole, le riconducibili a reati identificati nel codice penale e le riconducibili ai peccati e vizi capitali della tradizione cristiana. Nel primo gruppo rientrano parole che nella lessicografia non sempre sono sufficientemente individuate nella loro valenza spregiativa e aggressiva ( specialmente evidente in usi inappropriati e indebitamente estensivi), cioè parole di valore descrittivo indicanti reati e atteggiamenti condannati dalla legge e/ o dal comune sentire: abuso, calunnia, camorra, estortore, ladro, mafioso, stupratore (...) L’ultimo gruppo di parole è relativo ai sette vizi o peccati capitali della tradizione cristiana, definiti nel IV secolo da Evagrio e ancora largamente utilizzabili per ingiuriare e offendere con qualche nobiltà di linguaggio: ( 1) superbia, superbo, vanità, vanitoso; ( 2) avarizia, avaro, cupidigia, cupido, avido, avidità; ( 3) lussuria, lussurioso, concupiscenza, concupiscente; ( 4) invidia, invidioso; ( 5) gola, crapulone, epulone, goloso, ghiottone, ghiottoneria, ingordigia, ingordo, vorace, voracità; ( 6) ira, irascibile, irato; ( 7) accidia, accidioso, abulia, abulico, fannullone.