Il tema del lavoro dei giovani viene variamente trattato da molti commentatori: c’è chi lo affronta dal lato del mercato del lavoro, chi da quello della previdenza. Io penso che i due aspetti non possano essere esaminati separatamente se si vogliono comprendere le cause dell’alta disoccupazione giovanile, della scarsa qualità e della massima discontinuità del lavoro destinato ai giovani e, di conseguenza, della previsione, diventata percezione di massa, di diventare inevitabilmente pensionati poveri. Il punto da cui partire deve essere quello delle attuali regole del mercato del lavoro che, nonostante le intenzioni dichiarate dal Governo Renzi al momento del varo del Jobs Act, non hanno ancora risolto con misure strutturali il problema della precarietà della occupazione. Le intenzioni del Governo Renzi andavano, sulla carta, nella giusta direzione perché si proponevano di ' togliere l’alibi' alle imprese che non intendevano assumere a tempo indeterminato: lo si è fatto alleggerendo le normative a tutela dei licenziamenti, individuali e collettivi, e dotando il contratto a tutele crescenti ( cioè a tempo indeterminato) di forti incentivi iniziali. In questa scelta, però, sta uno dei principali difetti del Jobs Act: gli incentivi- spot drogano il mercato del lavoro, spingendo in alto l’occupazione finché durano, per poi farla scendere al basso in proporzione al taglio dei medesimi. Tant’è che l’attuale mix occupazionale ( 2017) nelle nuove assunzioni, ha riportato il tempo indeterminato a una risicata percentuale inferiore al 20%, grosso modo la stessa di prima del Jobs Act. Il lavoro a termine e intermittente è tornato a farla da padrone, nonostante il fatto che la scommessa del Governo Renzi fosse proprio quella di ridimensionare il lavoro precario con l’ausilio della spinta degli incentivi.

Adesso si tratta di ripensare il modello e, non a caso, condividiamo la proposta del viceministro Enrico Morando di adottare, nella prossima legge di Bilancio, una misura di incentivo per l’occupazione giovanile che sia strutturale e non più congiunturale. Ben venga questa profonda modifica all’impianto del Jobs Act ormai considerato, anche dagli esponenti del Governo, non più come un tabù intoccabile. La scommessa su carriere lavorative che abbiano una ragionevole continuità e, quindi, anche contributi previdenziali adeguati per il raggiungimento di un risultato previdenziale dignitoso, deve essere il nostro punto di partenza.

Al tempo stesso, va proseguita un’azione che impedisca la dispersione dei versamenti contributivi. Il Governo Prodi, nel 2007, aveva provveduto, con il Protocollo sul Welfare firmato con le parti sociali, a impostare su questo versante un’azione a sostegno dei giovani. Si è migliorata la totalizzazione dei contributi portando la franchigia da 6 a 3 anni e il calcolo dei contributi figurativi riferito all’ultima retribuzione e non più all’indennità di disoccupazione; si è previsto un riscatto della laurea molto conveniente per i giovani e le loro famiglie. Su quest’ultimo punto vale la pena ricordare la normativa dell’epoca: il riscatto poteva avvenire, per la prima volta, anche per il giovane neolaureato non ancora occupato. In quel caso la misura standard era di circa 5.000 euro per ogni anno di laurea da riscattare, ratealizzabile in 10 anni ( prima erano 3) e senza interessi. La famiglia del neolaureato poteva detrarre dalla propria denuncia dei redditi il 19% dell’importo. Il giovane, a sua volta, appena avesse trovato un lavoro, poteva dedurre l’importo dei versamenti dalla propria denuncia dei redditi. In questi giorni si è sentito molto parlare di riscatto gratuito della laurea: forse varrebbe la pena ricordare che la normativa del 2007 è ancora in vigore e che da lì bisognerebbe partire.

Saremmo curiosi di sapere dall’INPS quanti giovani ne hanno fin qui usufruito.