Una storia che parte negli anni ’ 80 a bordo di una sgangherata Renault, traboccante di manifesti e volantini ( perché quella era la prima sede della Lega Nord creata da Umberto Bossi) e la si vuol far finire nel “fiume d’oro di rimborsopoli” accomunando Il Senatùr all’ex amministratore della Margherita Lusi, suona come una storia buttata in pasto all’antipolitica, all’antiparlamentarismo, ad uso e consumo della moda imperante secondo la quale la politica sarebbe sempre e comunque attività criminale. Tra quella Renault e la condanna a Umberto Bossi e, in forma più pesante, all’ex tesoriere Francesco Belsito, per truffa ai danni dello Stato c’è di mezzo una storia che, nelle cronache e anche in certe stesse reazioni della Lega di oggi, viene completamente bypassata, come cancellata con un colpo di spugna.

Ed è la storia trentennale di un uomo, di un leader anomalo, che ha cambiato il linguaggio della politica, che ha fatto della canottiera stessa il suo manifesto “popolano”, per quel ceto emergente operaio- artigiano, di piccoli imprenditori dove da preveggente annusò per primo la “rivolta” del Nord. Sembra un colpo di spugna volto a cancellare la storia di un partito, anzi di un movimento, «creato dal nulla», come ha sempre rivendicato Bossi, praticamente l’unico leader in Italia che non ha mai avuto nessuno nel suo pantheon, tranne solo se stesso. E le sue intuizioni che combaciarono con quelle di Bruno Salvadori, conosciuto a fine anni ’ 70, il leader dell’Unione Valdotaine, morto ancora giovane in un incidente stradale.

Comunque uno la pensi su Bossi, e al di là del fatto, sia detto con rispetto, che forse non fu una buona idea nominare amministratore un ex buttafuori di night, che divenne anche sottosegretario al governo, il “romanzo” padano non è un romanzo criminale. Sennò criminale sarebbe il segno che Bossi per quasi trent’anni ha dato alla storia politica. La categoria del lusso e della bella vita con il “barbaro” di Gemonio ( in provincia di Varese dove abita in una vil- letta da geometra di paese) ha sempre fatto a pugni, come il diavolo con l’acqua santa. Forse, ad eccezione delle occasioni in cui ha giurato da ministro al Quirinale, una delle poche volte in cui “l’Umberto” si è vestito di tutto punto è stato nel novembre del 2005 quando dalla villetta di Gemonio si ripresentò a Roma, a meno di due anni dalla malattia, per festeggiare l’approvazione della “Devolution”, la battaglia di una vita.

Il massimo del lusso fu un completo Canali, che avvolgeva e mitigava il suo titanico sforzo per tenersi dritto e parlare, seppur con un filo di voce, con concetti scarni ma illuminanti, alla folla di cronisti che gli si fece attorno. Ma il completo Canali fu appunto un’eccezione. Una volta un suo fedelissimo, il ligure Giacomo Chiappori al gruppo Lega Nord per l’Indipendenza della Padania ( si chiama ancora così) fu costretto a riprendere “il Capo”, come i bossiani continuano ancora a chiamarlo, pur avendone una certa soggezione: «Eh Umberto, ma son dieci giorni che ci vai in giro e cambiali ‘ sti pantaloni». Il “Capo” grugnì evidentemente pensando: «Ma guarda un po’ che va a pensare questo qui». Eppure, pochi lo sanno, ma Bossi ha inciso anche sulla stessa moda: si dice che gli stilisti Dolce e Gabbana lanciarono la canottiera perché ispirati da “l’Umberto”.

Ma la politica e il Nord sono sempre venuti prima di tutto nella vita del Senatùr, anche a rischio della sua stessa vita. Nottate e nottate a tirar tardi, in trattorie e bettole della sua “Padania”, con pizza e coca cola a gogò ( Bossi è astemio) a furia di tirar giù linee e strategie e anche di mettere alla prova i suoi, che ormai terrorizzati dalle sue tele- fonate alle tre o alle quattro di mattina tenevano sul comodino un taccuino almeno per prendere appunti quando venivano colti nel sonno. Ma quando qualcuno, come è accaduto in passato, veniva colpito da un procedimento giudiziario Bossi era garantista. Di uno disse: «Ma che si tratta di una questione di donne? ( per la verità usò un linguaggio più colorito ndr), perché se si tratta di questo già so per certo che è colpevole sennò no».

La sua Lega però, è vero, cavalcò il giustizialismo di Tangentopoli ma i fedelissimi del “Capo” ancora oggi ricordano che Bossi «cazziò ben bene Luca Leoni Orsenigo», che aveva sventolato il cappio nell’aula di Montecitorio. E anni dopo riconobbe a Bettino Craxi di essere stato «uno statista».

Quello stesso Craxi che intuendo per primo su basi critiche la potenzialità del messaggio bossiano si recò a Pontida a fare un convegno, a ridosso del “Sacro prato” leghista, sulle autonomie. Ma forse più che il gelo e le prese di distanza che sono venute dalla Lega di oggi, affrettatasi subito a dire che il movimento è stato completamente “rinnovato”, l’accusa che ha ferito di più “il Capo”, giorni fa ricoverato in ospedale per aritmie ma subito dimesso, è quella che nell’immaginario collettivo tende ad accomunare lui, “il barbaro” di Gemonio al lusso e a una vita da nababbo. Quando invece nella sua di vita il Kenya e le ville di Malindi lui li ha visti solo sulla cartina geografica o in tv.

Narrano i più maliziosi che l’unica volta che Silvio Berlusconi riunì il centrodestra nella villetta di Gemonio se ne pentì e disse: «La prossima volta, ragazzi, ci vediamo da me». Il tinello, ricolmo di sole delle Alpi, scolpite e stagliate in tutte le salse, non ce la fece ad accogliere tutti i leader, da Fini a Casini e collaboratori. Dovettero spostarsi all’aperto.

Nel tinello, dove chi scrive intervistò Bossi nel 2006, ci sono, come in tutte le case, anche le foto del matrimonio di Bossi con Manuela Marrone, la maestra elementare, che con il Senatùr e Giuseppe Leoni fondò la Lega lombarda, ovvero la madre di tutte le Leghe che Bossi federò nella Lega Nord. Sul vetro che copre una di quelle foto era scritto semplicemente con un pennarello beige «Con Manuela il più bel matrimonio «. Un’ immagine semplice, di vita normale, che stride con il sinistro alone che nella campagna mediatica accompagna “The family”.

Così come stride con questo alone l’immagine della “Manuela” che si presentò a chi scrive con i fagiolini da pulire raccolti nel grembiule per dire che era ora di cena e l’intervista con suo marito andava conclusa. Prima della seconda condanna Bossi giorni fa aspirando il suo sigaro a Montecitorio ha serrato il pugno e ci ha detto: «Vogliono far fuori la Lega, ma ora vinceremo il referendum sull’autonomia a mani basse». Il Nord e la politica sempre prima di tutto. Anche a denti stretti.