Povero Pino Pelosi, un tumore alla prostata l’ha infine ucciso, tolto dall’anagrafe della fama criminale. Adesso, ne sono certo, tutti diranno che proprio lui, Pino Pelosi, morto ieri all’età di 59 anni al policlinico Gemelli di Roma, porta con sé, nella tomba, anzi, nel “fornetto”, il segreto della morte di Pier Paolo Pasolini, lo scrittore, il poeta, il regista, il polemista, il filologo, ucciso all’Idroscalo di Ostia la notte del 2 novembre 1975. Pelosi, infatti, perfino iconograficamente, resta il suo carnefice, l’assassino, l’ex ragazzino che, aggrottando la fronte e trattenendo un mezzo sorriso, raccontava di averlo ucciso dopo un alterco, roba, storie di “frocio” e “marchette”. Diceva di averlo incontrato la notte dell’ 1 novembre tra la stazione Termini e piazza dei Cinquecento, tra i portici e i baretti notturni. Poi di avere accettato un passaggio in auto, un’alfa GT 2000 dalla livrea grigio metallizzata, infine, dopo una cena in una trattoria nei pressi della Basilica di San Paolo Fuori le Mura, passata la mezzanotte, di aver raggiunto l’Idroscalo. Pelosi, sempre parole sue, avrebbe inizialmente accettato e poi rifiutato di avere un rapporto sessuale con Pasolini. Sceso dall’auto, raccontava durante l’interrogatorio, di essere stato inseguito dallo scrittore, che, dopo avere tentato di usare violenza sessuale con un asse di legno, avrebbe reagito violentemente colpendolo con quello stesso bastone. Solo a questo punto, sempre secondo il racconto di Pelosi, sarebbe scattata la sua reazione violenta. Pasolini tuttavia, come l’autopsia ha accertato, nonostante le molte ferite, Pasolini sarebbe morto per schiacciamento del torace, l’auto gli sarebbe passata sopra, sul corpo, infatti, una volta all’obitorio di via De Lollis, davanti al cimitero del Verano, verranno trovate le tracce dei battistrada.

La storia è comunque nota, così come le molte ipotesi su come realmente andarono le cose quella notte, dopo la sosta al “Biondo Tevere” di via Ostiense. L’ultimo, davvero l’ultimo fotogramma, ed è già mattino, mostra il cadavere sfigurato di Pasolini lì per terra, tra la polvere e la mondezza, i ragazzini curiosi subito dietro la rete di un campetto da calcio provvisorio, un poliziotto in primo piano, giubbotto nero, marlboro in bocca, sembra oscenamente grattarsi, incurante del povero cadavere sfigurato, sempre lì sulla scena del delitto. Poi le foto di Pelosi appena catturato, Pelosi, ossia “Pino la rana”, sedicenne, il giaccone da mercatino di via Sannio a quadrettoni, volto pasoliniano per definizione, almeno secondo la vulgata giornalistico- letteraria corrente e perenne. Pelosi condannato in primo grado in “concorso con ignoti”, poi, decenni dopo, sempre lui, Pelosi, povero disgraziato, “delinquente abituale”, ormai cinquantenne che prova a raccontare un’altra verità, la sua verità: non è vero che l’ho ucciso io, mi hanno usato come esca...

Tra le molte ipotesi della morte di Pasolini se ne contano infatti alcune davvero suggestive, e anche lì Pelosi figura tra gli attori protagonisti, cambia solo il soggetto. Secondo il pittore Giuseppe Zigaina, amico fin da ragazzo di Pasolini, il poeta avrebbe deliberatamente cercato quella sua morte, come un martirio firmato da se stesso, una morte simbolicamente cristologica, ossia scegliendo di finire il giorno dei morti, in una località chiamata Ostia, avendo per “boia” un ragazzino sedicenne, volto da borgataro romano, «proprio quelli che je piacevano a lui», Pelosi, appunto.

Pelosi ha vissuto un’esistenza, così possiamo dire, da divo del crimine, del suo crimine, l’avere ucciso un Poeta. Ricordo che, saranno stati i primi anni Ottanta, quando qualcuno raccontava di un Pelosi che, a Rebibbia, si era abbandonato alla lettura dei libri di Pasolini, la sua vittima, quasi pentito, consapevole di avere assassinato, appunto, un grande poeta, «e di poeti non ne nascono tanti nel corso di un secolo, al massimo uno, due...», così almeno aveva detto Moravia nella cerimonia funebre per l’amico ucciso a Campo de’ Fiori, tra la folla, le bandiere rosse, i pugni chiusi sollevati in segno di saluto, di rabbia, di identità, di addio, la maglietta azzurra della Nazionale fissata con le puntine da disegno sulla bara di legno chiaro dello scrittore Pier Paolo. Sempre lui, Pelosi, con sfrontatezza, quasi a voler smentire ogni cedimento, tempo dopo aveva invece precisato di non aver mai letto neppure una riga del morto, quasi a rimarcare la sua natura da “angelo nero”, la stessa che Dacia Maraini metteva in luce nella prefazione di un libro dove proprio Pino provava a raccontarsi, a far sopravvivere il proprio mito negativo, se stesso.

Già, Pelosi, l’assassino di Pasolini, alla fine ha proprio vissuto di quel suo delitto, quasi che non gli restasse altro destino. C’era già il suo volto, seppure invecchiato, a testimoniarne la natura “pasoliniana”, quasi appartenesse, come Ninetto Davoli, Franco Citti, Ettore Garofolo, Mario Cipriani, ossia ' Stracci', a una razza balorda e disperata che aveva avuto realtà oltre il sottomondo dei dannati delle borgate romane di un tempo proprio grazie a Pasolini, solo grazie e per merito di uno scrittore “civile”.

Forse si spiegano così le sue periodiche interviste in cui cercava di “alzare” qualche piotta raccontando nuovi dettagli della mattanza del 2 novembre all’Idroscalo, come ben sa Franca Leosini, che più volte lo ha accolto tra i suoi ospiti.

Il ladruncolo Pelosi è riuscito a lambire perfino il mio vissuto personale, familiare: anni addietro, mio zio Franco, seppe dalla questura che l’assegno che gli era stato trafugato durante un invio postale era finito tra le mani di Pino Pelosi, gli dissero esattamente così: «Sa, il suo assegno è stato rubato dall’assassino di Pasolini, lo scrittore».

Incontrandolo di persona, anni dopo, in piazza San Cosimato a Trastevere, provai a domandargli se davvero quell’assegno di zio Franco fosse finito tra le sue disponibilità, tra i suoi beni arraffati “alla buona ventura”, come già accadeva a Cartagine e al Balilla, minuscoli eroi del racconto di Accattone, e lui, Pelosi, il volto già segnato dalle rughe, lontano dal tempo dei riccioli e del viso ricercato tra i mille provini per i set di Pasolini, ridendo e ancora ridendo con una punta di sarcasmo paraculo, rispose soltanto con un “negativo, negativo”, come dire che fra i mille delitti che gli erano stati affibbiati quello, almeno quello, l’assegno di mio zio, non era di sua pertinenza giudiziaria.

C’era quasi una nemesi nelle foto che lo mostravano in tuta arancione da “scopino” a mettere ordine, a ramazzare, a liberare dalle erbacce l’Idroscalo, lo stesso luogo che è stato il “set” del suo destino da criminale accompagnato da cento interrogativi, già, se davvero, oltre la verità di comodo del delitto omosessuale, ossia lo scambio finito male tra cliente e marchetta, tra “frocio” e ragazzo di borgata, se davvero dietro la morte di Pasolini, lo scrittore che aveva detto «io so i nomi dei responsabili delle stragi», vi fosse invece un complotto organizzato, con mandanti fascisti occulti e no, un capitolo ulteriore, insomma, delle stragi di Stato. Pelosi, tuttavia, nel 1976, viene condannato a nove anni di carcere. Ne sconterà soltanto sette: il 26 novembre 1982 otterrà la semilibertà e il 18 luglio 1983 la libertà condizionata. Il resto, lo si è detto, è il suo destino di povero ladro, tra furti d’auto e fughe maldestre, eppure, pochi giorni fa, proprio pochi giorni fa, a chi mi domandava le ragioni di una foto che ci vedeva l’uno accanto all’altro, non ho potuto fare a meno di dire che, alla fine di tutto, c’era più verità in lui, nelle sue parole, nella sua reticenza, nel suo mezzo sorriso di ragazzo diventato quasi vecchio, che non nella corte dei pasoliniani che sulla morte del poeta hanno costruito il proprio destino di anime belle, perfino le proprie carriere. Povero Pasolini, povero Pelosi.