Il 29 maggio del 1917, giusto un secolo fa, in un paesino della cintura di Boston che si chiama Brookline (quasi come il famosissimo quartiere di New York) da una famiglia ricca, cattolica, spregiudicata, di origine irlandese, nasceva John F. Kennedy.

Suo padre si chiamava Joseph, era un imprenditore, poi un ambasciatore, sempre un aspirante politico. Era un uomo cinico e deciso, che riversò sui figli maschi la sua passione per il potere. Sua madre si chiamava Rose Fitzgerald, borghese della borghesia alta, una vera matriarca, figlia del potente sindaco di Boston, governò la famiglia – tra immensi dolori – quasi fino all’incredibile età di 105 anni.

Joseph e Rose fecero nove figli, John era il secondo, Bob il settimo, Ted l’ultimo. Tutti e tre tentarono di diventare presidente degli Stati Uniti. Il primogenito, Joseph jr, morì in guerra giovanissimo. Il padre aveva studiato per lui la corsa alla Casa Bianca, dovette ripiegare su John. Che di tutti i fratelli fu l’unico a riuscire nell’impresa, ma fu un’impresa infausta, durata solo tre anni e conclusa con le fucilate di Lee Oswald a Dallas nell’autunno del 1963. Bob invece fu ammazzato qualche anno dopo, da un ragazzino palestinese (che è ancora vivo e sta scontando l’ergastolo in California) mentre stava per vincere le primarie del partito democratico e candidarsi contro Nixon, cioè contro il leader repubblicano che, otto anni prima, era stato battuto per un soffio da suo fratello.

Era il giugno del 1968, l’anno del ferro e del fuoco, e Bob era impegnato in una lotta disperata contro la guerra del Vietnam e contro il razzismo.

Ted invece fu travolto da uno scandalo, per via dell’incidente stradale nel quale morì la sua segretaria.

Guidava lui. Però passò l’intera vita in Senato, fino a qualche anno fa, quando è morto alla vigilia degli ottant’anni. Dicono che fu uno dei migliori e più prolifici senatori degli Stati Uniti. La riforma sanitaria di Obama è farina del suo sacco.

Delle cinque sorelle si sa pochissimo, una è ancora viva, Jean, 88 anni. Una, invece, Rosemary, la più grande, subì una sorte atroce: il vecchio Joseph ( diabolico, reazionario e sprezzante verso le donne delle quali aveva una considerazione molto bassa) decise di farla lobotomizzare perché gli sembrava troppo vivace, anticonformista, stravagante, sessualmente libera. Rosemary subì l’operazione quando aveva 23 anni, e da quel momento visse in uno stato poco più che vegetativo. Perse - dicono – una grande oratoria, finì in sedia a rotelle. E’ morta una decina di anni fa, silenziosa, inebetita, quasi novantenne.

Torniamo a lui: John, giefchei.

Vogliamo parlare un momento di questo personaggio mitico?

Certo, mitico per la sua morte che ha segnato la storia degli Stati Uniti, e che per anni è stata avvolta nel mistero.

Mitico perché fu il più giovane presidente degli Stati Uniti della storia ( e purtroppo fu anche il più giovane presidente degli Stati Uniti ucciso in un attentato, dopo Lincoln, Gardfield e McKinley). Mitico perché iniziò la corsa allo spazio e alla luna, inseguendo i sovietici di Krusciov, mitico perché sconfisse i russi nel braccio di ferro su Cuba.

Però mitico per altre ragioni.

Una soprattutto. È il presidente che ha saputo parlare di diritti, di lotta alla povertà, di rifiuto del razzismo. Con tutti i limiti che ebbe, con le prudenze, le paure. Ma anche con un grande spirito di avventura, che diede un segnale di modernità che prima di allora non c’era mai stato.

John Kennedy, se vogliamo essere sinceri, non realizzò quasi nulla nella sua breve presidenza. Le grandi conquiste, compresa la legge che pose fine al razzismo e sancì i diritti dei neri, sono quasi tutte del suo successore, e cioè di Lyndon Johnson, che invece passò alla storia come il massacratore del Vietnam ( lo fu, indubbiamente, ma fu anche tante altre cose, compreso il presidente che dichiarò guerra alla povertà e che per primo immaginò quel reddito minimo del quale oggi iniziamo appena a parlare, mezzo secolo dopo, qui dalle nostre parti).

Kennedy realizzò poco, perché ebbe poco tempo, però iniziò delle grandi battaglie. Fu il leader politico che più di ogni altro tentò di mettere insieme i due grandi valori che in questi ultimi due secoli hanno fatto capolino in politica, molto spesso combattendosi tra loro: la libertà e l’uguaglianza. Ed è per questo che diventò un personaggio molto popolare, specialmente in quella gioventù, quella del babyboom, che stava affacciandosi, all’inizio del decennio sessanta, alla vita pubblica, e che poi, dopo la sua morte, fu protagonista dell’onda impetuosa del sessantotto.

Kennedy era un tipo molto moderno e talvolta anche spericolato. Sapeva come comunicare. Conosceva già i principi essenziali della politica spettacolo. Seppe persino usare il suo aspetto fisico, diciamo pure la sua bellezza, come strumento di potere. Non solo personale.

Però aveva anche una idea molto alta della politica. La politica come trasformazione sociale, la politica come strumento delle idee. Lavorava e pensava, certamente, dentro il solco che era stato tracciato da Franco Delano Roosevelt.

Ma lui innovò di più, più rapidamente e per certi versi ebbe più coraggio. Decise che la lotta al comunismo si poteva fare, sì, con la propaganda e con la potenza militare, ma anche con una politica che fosse “competitiva” nei confronti del comunismo. Che offrisse, cioè, delle risposte alle domande sociali che la rivoluzione russa aveva buttato violentemente sul tavolo della lotta politica. JFK propose un impetuoso sviluppo del welfare e dei diritti civili da contrapporre al collettivismo e alla dittatura.

Credo che di Kennedy ci resti essenzialmente questo. Non molto di più: ma è molto. Ci resta cioè l’idea che intorno ai diritti si può costruire la modernità. Kennedy sicuramente era favorevole alla società di mercato. Però non idolatrava il mercato. Pensava che anche il mercato deve inchinarsi al diritto. E seppure con grande prudenza, in nome del diritto sfidò persino il consenso. Sapeva benissimo che la lotta al razzismo gli avrebbe tolto l’appoggio e i voti del democratici degli Stati del Sud, del Mississippi, dell’Alabama, del Texas. E però non ci pensò due volte, nel 1962, quando il governatore del Mississipi Ross Barnett ( un democratico, un uomo del suo stesso partito) impedì allo studente nero John Meredith di entrare all’università, perché considerava l’università un luogo per soli bianchi (“finché io sarò governatore mai un nero sarà ammesso a questa università... ”), John non ci pensò un minuto ad autorizzare suo fratello Bob, ministro della giustizia, a mandare la guardia nazionale a fronteggiare la polizia del governatore e a forzare il blocco. Scoppiò una rivolta di popolo, pro- governatore e contro Meredith. Bob non si piegò, ci fu uno scontro militare, tra i federali e gli uomini di Barnett, si sparò.

Due morti, un inferno. Poi Meredith entrò all’università e il razzismo subì un colpo micidiale, il Ku Klux Klan iniziò la discesa. Kennedy aveva vinto, aveva vinto il diritto.

E oggi? Conoscete qualche leader politico, oggi, che sappia mettere i diritti, e il diritto, al di sopra dei suoi interessi, o degli interessi dei gruppi sociali ai quali fa riferimento, o al disopra della spinta popolare, o populista, la quale invece chiede che il diritto si faccia un po’ da parte, perché è un impiccio, perché è vecchio, perché non risponde ai grandi principi della moralità? Io non ne conosco.

Ogni tanto qualcuno, timidamente, ci prova. Poi si trova solo, viene circondato, assediato: deve arrendersi o sparire. Kennedy forse era anche cinico e freddo come suo padre. Può darsi. Però era anche uno statista e sapeva evocare i sogni.

Ecco, per questo io ho molta nostalgia di Kennedy. Non perché io sia un nostalgico ( o, almeno, non solo per questo...): ho nostalgia perché preferirei una modernità kennediana, piuttosto che quella di Salvini, o di Le Pen, o di Trump.