«Il nostro sistema previdenziale ha avuto una evoluzione contraddittoria, ma è anche da qui che si valuta la civiltà di un paese. Oggi i capisaldi devono essere la flessibilità pensionistica e una pensione dignitosa per chi è giovane oggi». Lo teorizza il presidente della Commissione lavoro, Cesare Damiano, nel suo libro scritto a quattro mani con la deputata Marialuisa Gnecchi dal titolo Pensioni: riduzione del danno. Al centro del volume, il tema della flessibilità del lavoro verso la pensione e un’analisi delle prospettive future, in chiave «riformista radicale» .

Presidente, che cosa significa definirsi riformista radicale oggi?

Innanzitutto vorrei fugare il fraintendimento per cui essere riformista vuol dire essere moderato. Ecco, l’aggettivazione radicale sta a significare che noi ci muoviamo cambiando le regole del gioco, cioè cambiando le leggi, in una prospettiva di sinistra, sociale. La nostra è una visione laburista della società, che punta alla piena valorizzazione dei corpi sociali intermedi, nel tentativo di mettere a contatto lo strumento della contrattazione con quello della legislazione.

Eppure, in questi anni, la forza del sindacato si è notevolmente affievolita.

La diminuzione di forza contrattuale del sindacato inizia a manifestarsi già alla fine degli anni Settanta. Oggi, in un presente fatto di lavoro cosiddetto liquido - con lo smart working e il telelavoro-, il sindacato è destinato a veder diminuire ancora la sua capacità di influenza. Questo apre degli interrogativi sociali sul futuro della contrattazione e la mia risposta, da laburista e riformista, è che dove si ferma la contrattazione deve proseguire la legislazione.

Nel suo libro analizza l’attuale situazione pensionistica. Che impressione ne ha tratto, analizzandola in modo organico?

Il nostro sistema previdenziale ha subito molte riforme e rimaneggiamenti nel corso del tempo. Partono dal ‘ 92 col governo Amato, per arrivare alle ultime, quella di Maroni nel 2004, la mia nel 2007, le riforme Berlusconi nel 2010 e 2011, la Fornero nel 2012 e infine l’Ape nel 2016. Dare un giudizio non è semplice, perchè è stata una evoluzione contraddittoria. Con un esempio: nel 2007 ho eliminato lo scalone Maroni, cinque anni dopo la Fornero ha introdotto uno scalone doppio rispetto a quello di Maroni.

E dunque qual è la situazione odierna?

Anche grazie ad una pressione parlamentare e del sindacato unitario, si sta finalmente imboccando una strada giusta. La direzione è quella di inserire nel sistema un criterio di flessibilità pensionistica, vale a dire la possibilità soprattutto per chi svolge lavori pesanti o è disoccupato di anticipare il momento della pensione.

Considera l’anticipo pensionistico una misura efficace?

L’Ape sociale è in sperimentazione fino al 2018, ma io penso che debba diventare una misura strutturale. Del resto, ritengo che nel prossimo futuro la nostra attenzione debba concentrarsi su un punto: l’aspettativa di vita. Non possiamo pensare di avere una scala mobile applicata all’età dei lavoratori che, proiettata a metà di questo secolo, costringerà ad andare in pensione di vecchiaia a 70 anni.

Un capitolo del libro affronta il tema della pensione per i giovani. Con quali prospettive?

Partiamo dall’assunto che chi è entrato nel mercato del lavoro dopo il 1 gennaio 1996, andrà in pensione all’incirca nel 2035 e avrà un calcolo pensionistico interamente contributivo. Il problema è che queste generazioni entrano tardivamente nel mercato del lavo- ro, intorno ai 30 anni, e non hanno garantito un lavoro contrattualmente stabile, di buona remunerazione e con contribuiti adeguati. Questo quadro pone il problema di come aiutare i giovani ad arrivare ad una pensione di dignità.

In che modo?

Credo che la risposta sia quella di integrare con un assegno sociale la pensione che si conquista sommando tutti i contributi versati nella vita lavorativa, che saranno sicuramente insoddisfacenti ai fini di una pensione adeguata.

Questo vale sicuramente per i lavoratori subordinati, ma anche il lavoro autonomo ha accusato in modo massiccio la crisi.

Nel Novecento, la sinistra si è occupata prevalentemente del lavoro dipendente. Oggi, invece, si è acceso l’interesse a rappresentare le istanze del lavoro autonomo e indipendente: un mondo variegato con all’interno molte disomogeneità. Io sono stato relatore alla Camera dello Statuto del lavoro autonomo, che per la prima volta ha conferito a questi lavoratori diritti un tempo prerogativa del solo lavoro dipendente, come la tutela per maternità e malattia grave, la deducibilità fiscale delle spese di formazione, l’accesso ai bandi europei e la disoccupazione per i collaboratori.

Una questione vitale per i professionisti sono i minimi tariffari, aboliti nel recente passato dalle liberalizzazioni del cosiddetto decreto Bersani. E’ una questione aperta?

Penso che l’equo compenso e le tariffe minime per i liberi professionisti andrebbero ripristinati, perchè la liberalizzazione delle tariffe non ha fatto bene né ai professionisti né ai loro clienti. Se esiste una tariffa minima, infatti, si può scegliere a parità di costo il professionista di miglior qualità, se invece le tariffe sono libere si è portati, soprattutto in tempo di crisi, a scegliere chi costa meno e non è detto che questo coincida con la maggiore qualità della prestazione di un servizio.

Pensa ad una iniziativa legislativa?

Sì, sono dell’idea che serva lavorare a una nuova iniziativa politico- legislativa, che affronti il tema delle tariffe minime e dell’equo compenso.