Molti passi avanti si erano notati. A cominciare dalle circolari dell’anno scorso e, almeno fino all’improvvisa ondata del caso Consip, a un flusso più rarefatto di intercettazioni finite sui giornali. Ma l’intervento del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone pubblicato ieri su Repubblica segna un punto di svolta sul processo mediatico.

C’è un chiaro e esplicito appello a limitare quelle «notizie» che «possono incidere anche in modo gravissimo sulla privacy e sulla reputazione dei cittadini, divenendo in alcuni casi un’autentica “gogna mediatica”». È davvero notevole che un simile appello arrivi dal vertice dell’ufficio inquirente più importante d’Italia.

E, allo stesso modo, che sia pubblicato su un giornale, Repubblica, protagonista negli anni scorsi di una battaglia condotta in direzione opposta: quella contro la cosiddetta “legge bavaglio”. Il segnale arrivato ieri è il punto di arrivo di un percorso chiaro, che va avanti ormai da più di un anno. Una presa di coscienza, da parte di alcuni importanti magistrati, della pericolosa deriva innescata dalla pubblicazione selvaggia di atti coperti da segreto o comunque impubblicabili a norma di legge.

Non si tratta più di preservare l’onorabilità di un politico, di evitare che la fuoriuscita di atti d’in- dagine e in particolare di conversazioni private ne rovini la carriera o influisca sul risultato elettorale. Pignatone non ne parla in modo esplicito, ma uno dei rischi più gravi di quella «gogna mediatica», da lui evocata senza perifrasi, è il discredito della stessa magistratura.

Più precisamente, il rischio che il cosiddetto processo mediatico alteri così tanto la percezione della giustizia e il significato del processo da scagliare prima o poi i cittadini contro gli stessi giudici. Una degenerazione a cui si assiste ormai in modo sempre meno episodico, e che rischia di travolgere qualunque magistrato osi assumere o promuovere una misura processuale non in linea con le attese del popolo giustizialista.

Il procuratore di Roma ha certamente un’attenzione molto forte per questi temi. Lo ha dimostrato in almeno due occasioni. Innanzitutto con le direttive emanate circa un anno fa – «in assenza di iniziative legislative», ricorda Pignatone su Repubblica – proprio sulle intercettazioni e la necessità di limitarne la trascrizione «a quelle realmente rilevanti ai fini dell’indagine, prestando ogni possibile attenzione al rispetto della privacy delle persone intercettate, specie quando non indagate».

Come sottolinea il procuratore, i capi di altri uffici inquirenti ( almeno una ventina), promossero direttive analoghe, e alla fine il Csm le fece proprie in una delibera.

L’altro snodo determinante dell’azione di Pignatone su questo fronte è la revoca del mandato investigativo sull’indagine Consip nei confronti del Noe, con la conseguente assegnazione dell’incarico ad altro reparto dei carabinieri, il Nucleo investigativo di Roma: decisione questa assunta proprio a ripetute fughe di notizie. Due prove della grande vigilanza di questo magistrato sul tema della riservatezza.

Con il terzo e importantissimo atto costituito dallo stesso intervento su Repubblica, il vertice dei pm capitolini mette di fronte alle proprie responsabilità diverse categorie di soggetti ( stampa compresa), ma due più di tutti: i suoi colleghi e il Parlamento. I primi non possono più ignorare – nei pochi casi i cui fossero ancora tentati dal farlo – l’esistenza di una magistratura responsabile e scrupolosa nel preservare tutti i diritti ma anche la credibilità stessa del sistema. Al Parlamento, Pignatone su rivolge direttamente quando parla del «disegno di legge delega di ( parziale) riforma della disciplina delle intercettazioni».

Non chiede, come fanno invece i cinquestelle, di buttare tutto a mare. Non sostiene che i limiti all’uso dei trojan siano un favore alle cricche dei corrotti. Anzi, ricorda che «il punto più delicato» è costituito proprio dalle captazioni «ambientali», che i malware installati sui dispositivi degli indagati non a caso consentirebbero di svolgere nella maniera più invasiva. – In ultima analisi il procuratore di Roma sollecita l’approvazione definitiva, da parte della Camera, di quella riforma messa al bando dai grillini.

E con il massimo garbo possibile inserisce proprio in quel passaggio una frase chiave: «Solo la concreta attuazione delle norme ci dirà se l’obiettivo sarà raggiunto». Dipenderà insomma, anche se non soprattutto, dalle Procure e dai loro vertici. Che, cosa di cui Pignatone è convinto, dovrebbero avvertire il suo stesso impulso di sottrarre il processo alla barbarie della gogna, se vogliono evitare di restarne intrappolati loro stessi.