Può sembrare un problema di cerimoniale, dato che anche quello in Italia è cosa da anime morte, gestito da autentici “burosauri” secondo non scritte liturgie strambe ma ferree, che spesso premiano la nomenklatura e disconoscono ruoli, meriti e talvolta pure la buona educazione. È di certo un problema di sostanza, perchè la firma della nuova dichiarazione di Roma sabato scorso in Campidoglio per il rilancio della Ue «in 10 anni», come ha sottolineato Paolo Gentiloni, aveva nell’elemento di rappresentazione scenica gran parte della propria forza ( per un Paese come l’Italia il «cambio di marcia» e l’intenzione seria di voler essere nella pattuglia di testa della nuova doppia velocità europea si dovrebbe vedere già ad aprile nel Dpef, che però ad ora è avvolto in un preoccupante misterioso silenzio, nonostante gli annunci del premier).

E dunque non si può non notare che mentre si celebrava il rilancio dell’Europa, così sofferto anche sessant’anni dopo, nessuno nei discorsi ufficiali in una sarabanda di sentimenti, rievocazioni storiche ed evocazioni biografiche ( come nel caso del bellissimo discorso di Tusk che ha ricordato cos’ha significato l’Europa per la Polonia che aveva lottato con Solidarnosc) nominava l’euro. Solo il premier maltese ha citato en passant «gli strumenti tecnici di cui l’Europa si è dotata», e la perifrasi svela un imbarazzo che forse si voleva celare.

Ma non solo la più potente conquista della Ue, fatta nonostante gli americani malmostosi che all’epoca titolavano sul Vecchio Continente «malato di vanità monetaria», non veniva nemmeno citata: soprattutto c’era lì Mario Draghi, unica autorità europea istituzionalmente dotata di concreto potere sovrano, fatto accomodare come su uno strapuntino, ultimo in fondo a destra guardando il palco dei leader. Seduto accanto non a Giorgio Napolitano, suo primo sponsor e vero king maker della sua nomina, ma accanto a Giuliano Poletti. Col quale, va detto, il presidente della Bce che pure è persona di ottima e perfino spiritosa conversazione, non ha scambiato un motto.

Vittima anche lui, come la meno carismatica Federica Mogherini, di una prima fila tutta consacrata al politburo italiano. Mario Draghi era arrivato poco dopo le 9 e mezza, sgusciando nel sottoportico di Palazzo dei Conservatori, proprio mentre Paolo Gentiloni, Donald Tusk e il premier di Malta, tendevano la mano di benvenuto sulla piazza del Campidoglio al presidente lettone, senza che nessun obiettivo riuscisse a catturarlo. Nella Sala della Lupa, è stato fatto accomodare nella stessa simmetrica posizione alla fine della sfilza di poltrone a sinistra, di Maria Elena Boschi ( la cui presenza in prima fila è balzana davvero, e non solo dal punto di vista del cerimoniale) che era però seduta a fianco di Lady Pesc, Federica Mogherini.

Naturalmente, se tutto è difendibile nel nome dell’autonomia della politica monetaria, e dunque è perfino giusto che il presidente della Bce non sia in primo piano in quella che è una celebrazione politica, e di politica di governo dei 28, il fatto è che senza Mario Draghi forse l’Europa nemmeno esisterebbe più: senza il suo «a qualunque costo» di cinque anni fa dell’Europa dopo la crisi dell’eurozona sarebbero rimaste solo macerie. Senza contare che, oltre la politica monetaria espansiva che si deve solo all’interpretazione di Draghi dello statuto dell’Eurotower ( e che all’Italia ha fatto risparmiare 50 miliardi di euro in tassi sul debito pubblico) il presidente della Bce ha anche dato ai vari Trump e Le Pen uno stop che dai leader europei non è mai venuto: il suo «l’euro è irreversibile» significa che è l’Europa ad essere irreversibile. In modo molto più concreto, forse, della nuova dichiarazione di Roma, tutta concentrata sull’andare avanti insieme come «comunità», e senza una parola su come si possa garantire stabilità e crescita comuni avendo una politica monetaria centralizzata, e 28 diverse politiche di bilancio.