Incredibile, assurdo, vergognoso. Da cinque anni nel paesino di Affile, a ottanta chilometri da Roma, si erge un mausoleo dedicato a Rodolfo Graziani, il “Maresciallo d’Italia” di nomina mussoliniana, accusato di crimini di guerra, condannato a 19 anni di carcere, mai scontati, da un tribunale italiano. Sul monumento si legge, a caratteri cubitali, “Patria e Onore”. Sono le parole d’ordine del raffazzonato esercito guidato da Graziani nella repubblica sociale italiana. L’opera, progettata e realizzata dal comune di Affile, è stata inizialmente finanziata dalla Regione Lazio, guidata da Renata Polverini. Il finanziamento è stato revocato da Nicola Zingaretti, subentrato alla Polverini alla presidenza della regione, ma il monumento è ancora lì.

Il “sacrario”, fin dalla sua inaugurazione, è stato omaggiato da visitatori in divisa d’altri tempi e con il braccio destro teso nel saluto romano. Ma, forse, non ci resterà per molto tempo. Sarebbe dovuto sparire da un pezzo, ma le proteste dell’Anpi, di buona parte della stampa e delle forze democratiche del Paese non erano riuscite a ottenerne l’abbattimento, finché una denuncia per apologia del fascismo non ha messo in moto la macchina giudiziaria. Sarà il tribunale di Tivoli a pronunciare la sentenza il 21 marzo. Per il momento, Il procuratore capo, Francesco Menditto, ha chiesto la condanna a due anni di reclusione del sindaco della cittadina ciociara, Ercole Viri, e il sequestro ai fini di confisca del mausoleo. Perché, ha specificato, “finché resta in piedi il monumento, resta in piedi l’apologia”.

Per singolare coincidenza, proprio in questi giorni è apparso nelle librerie un romanzo (“I fantasmi dell’Impero”, autori Marco Consentino, Domenico Dodaro e Luigi Panella, Sellerio editore) ambientato in Etiopia nel 1937, quando Graziani ne era Vicerè. Un romanzo, per comodità di collocazione. Ma, in realtà, un documentatissimo resoconto di molte delle atrocità commesse in quel periodo dall’esercito e dalla milizia, in ottemperanza agli ordini impartiti da Mussolini e da Graziani. Inquadrato in un immaginario ( ma non troppo) complotto, ordito dal capo di stato maggiore generale, Pietro Badoglio, anche lui “Maresciallo d’Italia”, per sostituire Graziani, suo eterno rivale, con Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, cugino del re. Avvicendamento che avvenne ad Addis Abeba il 21 ottobre del 1937.

Il generale Graziani, per la verità, non era nuovo all’uso della strage come strumento di guerra. Ne aveva già dato prova in Cirenaica nel 1931, quando era stato mandato a Bengasi per reprimere la rivolta anti- colonialista guidata dallo sceicco Omar al Mukhtar. È lui a ordinare la deportazione dell’intera popolazione dell’altipiano del Gebel al Akhdar, accusata di fornire assistenza ai ribelli. Centomila tra uomini, donne, vecchi e bambini, sono costretti a una marcia forzata nel deserto verso la costa libica. Molti deportati muoiono durante la traversata. E dopo, nei campi di concentramento, le condizioni sanitarie e di sostentamento sono talmente insufficienti da causarne la morte per fame e malattie a decine di migliaia. Omar al Mukhtar sarà catturato e impiccato dopo un processo sommario.

Ma la Libia è soltanto l’inizio. In Etiopia sarà molto peggio. Nella guerra dichiarata da Mussolini nel 1935 contro il regno del Negus, Graziani dirige le operazioni militari sul fronte meridionale. Per la propaganda fascista è un’epopea. Si magnificano le vittorie riportate. Si insignisce il “valoroso combattente” dei titoli di Maresciallo d’Italia e duca di Neghelli. E si sorvola su un piccolo particolare: l’autorizzazione, prontamente ottenuta dal “Duce”, ad utilizzare l’iprite, il gas tossico vietato dalla Convenzione di Ginevra, “contro le orde barbariche”. Graziani lo usa in numerose occasioni, provocando effetti devastanti. Badoglio, sul fronte settentrionale, farà altrettanto.

Nominato vicerè d’Etiopia nel 1936, instaura subito un regime di terrore. L’Italia aveva vinto la guerra, ma il vastissimo territorio etiopico era tutt’altro che pacificato. I ribelli ne controllavano gran parte e impegnavano le truppe italiane in un’estenuante guerriglia. In questa situazione, Graziani non ha esitazioni. Villaggi distrutti, popolazioni sterminate, forche erette nelle piazze. Ras Destà, uno dei capi della resistenza, appena catturato, viene passato per le armi. E con lui, gran parte dei suoi uomini. Il giovane vescovo di Addis Abeba, l’abuna Petros, accusato di complicità con i ribelli, è fucilato da un reparto di carabinieri. E, dopo l’esecuzione, il vicerè scrive a Mussolini; “La fucilazione dell’abuna Petros ha terrorizzato capi e popolazione. Continua l’opera di repressione degli armati dispersi nei boschi. Sono stati passati per le armi tutti i prigionieri. Sono state effettuate repressioni inesorabili su tutte le popolazioni colpevoli, se non di connivenza, di mancata reazione alla ribellione”.

Il 9 febbraio del 1937 si svolge nel palazzo del vicerè una cerimonia in onore della nascita di Vittorio Emanuele di Savoia, primogenito del principe Umberto. Per l’occasione, Graziani ordina la distribuzione di due talleri d’argento ai poveri di Addis Abeba. Ed esce nel cortile del palazzo, insieme con gli invitati, per presenziare alla regalia. Appena è fuori, due giovani ribelli, Deboch Abraha e Moges Asgedom, lanciano contro il gruppo numerose bombe a mano. Il vicerè è ferito. Una miriade di schegge lo ha colpito nella parte destra del corpo. Ma, da quel momento ha inizio, nella capitale e in tutta l’Etiopia, una feroce rappresaglia che dura tre giorni e non risparmia donne, bambini, vecchi, religiosi. Quante sono le vittime della repressione? Almeno tremila, secondo le stime britanniche, trentamila secondo le fonti etiopiche, trecento, a giudizio del governo italiano. Certamente moltissime. E Mussolini si compiace telegrafica- mente con Badoglio per “l’inizio di quel radicale repulisti assolutamente necessario nello Scioà”.

Corre voce in quei giorni ad Addis Abeba che i monaci copti del convento di Debrà Libanos abbiano ospitato gli attentatori, ne siano in qualche modo complici. Una colonna guidata dal generale Pietro Maletti è incaricata della punizione. Nei centocinquanta chilometri di marcia di avvicinamento al monastero, gli uomini di Maletti incendiano migliaia di tucul e fucilano oltre duemila abitanti della zona. Raggiunto e circondato il monastero, i militari ricevono un telegramma di Graziani che ordina di “passare per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice priore”. Eseguono. I religiosi vengono schierati a scaglioni e falciati dalle mitragliatrici. Quante le vittime? Secondo le fonti ufficiali, 449. Secondo Angelo Del Boca, autore di numerose opere sul colonialismo italiano, tra 1500 e 2000. Il vicerè rivendicò “la completa responsabilità” della “tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia”.

Rientrato in Italia, Graziani non sta con le mani in mano. Nel 1938 aderisce al “Manifesto della razza”, il vergognoso documento pseudo- scientifico che fu l’atto iniziale della persecuzione degli ebrei italiani, culminata nel 1943 con il rastrellamento nel ghetto di Roma. E il 3 novembre del 1939 riceve la nomina di capo di stato maggiore dell’esercito. Il 10 giugno del 1940 l’Italia dichiara guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. E Graziani, nominato governatore della Libia dopo la morte di Italo Balbo, riceve dal duce l’ordine di invadere l’Egitto. E’ l’inizio della “campagna d’Africa”, che si conclude nel 1941 con la sconfitta delle truppe italiane, costrette dalle più attrezzate forze britanniche ad abbandonare una gran parte del territorio libico. Mentre Mussolini, per cercare di riparare alla disfatta, accetta la proposta di Hitler di inviare in Nordafrica il generale Rommel con le sue forze corazzate.

Per qualche anno, la stella di Graziani si offusca. Dopo la sconfitta africana, è destituito da Mussolini dall’incarico di governatore della Libia, richiamato a Roma e addirittura sottoposto per il suo operato a una commissione d’inchiesta, guidata dall’ammiraglio Thaon di Revel e conclusa senza l’adozione di alcun provvedimento nei suoi confronti. Il “Maresciallo” si ritira per due anni ad Anagni. E nel frattempo, accade di tutto: la storica seduta del Gran Consiglio del fascismo, l’arresto e la liberazione di Mussolini, la costituzione della Repubblica Sociale Italiana. Graziani ritorna in pista. Il duce lo nomina ministro della Difesa Nazionale. E in questa veste, fino alle ultime battute della guerra, organizza e guida le forze armate della Rsi, impiegate soprattutto nei rastrellamenti contro i partigiani. Sono suoi i bandi di richiamo alle armi, inclusivi della pena di morte per i renitenti alla leva. Ma non segue Mussolini nell’ultima, disperata fuga verso la morte. Il 29 aprile del 1945 si consegna a Milano al quarto corpo d’armata statunitense.

Gli alleati non incriminarono Graziani, malgrado le continue richieste, documentate, delle autorità etiopiche. Fu processato nel 1948 in Italia per il ruolo svolto nella Repubblica Sociale Italiana e condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo, 17 dei quali condonati. Scontati quattro mesi di carcere, tornò in libertà.

Graziani muore nel 1955. Negli ultimi anni di vita si iscrive al Movimento Sociale Italiano, ne diventa presidente, incontra Andreotti durante un comizio dell’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio ad Arcinazzo, suscitando una valanga di commenti per un bacio che i due si sarebbero scambiati, ma che lo statista democristiano ha sempre smentito. E poi, il monumento. Auguriamoci che, dopo la sentenza del tribunale di Tivoli non ne sentiremo più parlare.