Il filosofo Francese Bernard Henry Lévy ha scritto un articolo nel quale analizza come la politica si stia trasformando da fenomeno che riguarda la lotta tra gli interessi e le idee in un fenomeno molto simile al tifo calcistico. Con tutta la violenza gratuita, specialmente nei linguaggi, che caratterizza il tifo calcistico. L’articolo, tradotto da Rita Baldassarre, è stato pubblicato ieri dal “Corriere della Sera”. È un articolo che parla di Francia, ma si adatta perfettamente alla situazione e al clima politico italiano. Perciò ne ripubblichiamo ampi stralci.

«In realtà, il gioco al massacro è cominciato a sinistra, con Hollande tradito dai suoi.» (...) «Ma è negli schieramenti di destra che l’ecatombe raggiunge il suo culmine. Eliminazione dell’ex presidente Sarkozy. Messo in disparte il presidente virtuale Juppé, che l’opinione pubblica aveva consacrato e che si scopre, questo lunedì mattina, clamorosamente più grande di se stesso. E davanti al vincitore, François Fillon, votato da quattro milioni di elettori alle primarie, lo spettacolo delle pecore che alzano la testa e minacciano di estromettere anche lui dal gioco».

(...) E poi, certo, i magistrati che agiscono in conformità al loro ruolo quando indagano su una storia di impieghi fittizi, ma ai quali val la pena di ricordare, senza peraltro portare offesa, che benché giudici, essi restano uomini, e sotto l’ermellino — chissà — provano anch’essi passioni e rancori ordinari; che detengono un potere notevole, il quale ha sempre — come ogni potere — la tendenza ad arrivare fino in fondo; e che si sono trasformati, per questa ragione, in protagonisti a tutti gli effetti di una campagna dalla quale, come insegna Montesquieu, devono tenersi scrupolosamente alla larga».

«Ciò detto, il peggio siamo ancora noi, ognuna e ognuno di noi, a causa di questo nuovo e strano rapporto con la politica che le circostanze fanno emergere e che riassumo in tre tratti salienti».

(...) «Un tempo la lettura del quotidiano era la preghiera mattutina del filosofo. Oggi invece è la lettura di quel giornale a nutrire, ogni settimana, l’insaziabile voglia di scherno dell’elettore. Ah, la febbre di derisione che ci prende quando riusciamo a cogliere nuove nefandezze nei nostri candidati e nei nostri eletti! La golosità sfrenata nel trangugiare la nostra dose settimanale di corruzione, marciume ed esalazioni fetide! E la sorda delusione, il gusto insipido di ogni cosa, quando, si dà il caso, si scopre che i sospetti sono infondati».

Ma quando ci divertiamo a questo modo, quando godiamo e ci inebriamo a tal punto di queste “storie”, non sarebbe meglio ricordare, come fa Mallarmé in L’azzurro, che le nostre aspirazioni ad altro non conducono se non a un “lugubre sbadigliare verso un trapasso oscuro”» ?

«Punto due. Lo spettacolo. E a mo’ di giudizio, ecco i commenti instancabili e frivoli sulle infinite peripezie del gioco elettorale. E questo dal giorno in cui le reti televisive si sono messe a commentare lo sport ininterrottamente, quasi si trattasse di politica. Adesso, invece, si commenta la politica come se si trattasse di sport: la cronaca della partita è diventata paradigma della narrazione nazionale; nel nostro paese elogiato da Marx come nazione politica per eccellenza, la politica diventa una sottospecie del calcio, con i suoi giocatori, arbitri, sostenitori, selezionatori e cannonieri…» «Con grande naturalezza, infatti, nei momenti più travagliati del caso Fillon, i cacicchi repubblicani e i loro allenatori fantasma, a dispetto della differenza di sensibilità e di programmi, si sono rivolti al “numero 2” che, come nel calcio, aspettava in panchina. I fedelissimi di Fillon gli riconoscono forse altro merito, oltre alla sua «resistenza», alla sua capacità di “incassare”, e all’immagine che ha dato di sé quando, gettato a terra, si è rialzato come al termine di un’ordalia incompiuta?» (...) «E infine, terzo punto, l’uguaglianza, la più nobile delle passioni, che ha creduto nel sogno di plasmare un corpo sociale e di dare dignità alla politica. Sono d’accordo con Jean- Claude Milner, nel suo Rileggere la rivoluzione ( Verdier), quando opponendosi ad Anatole France di Gli dei hanno sete afferma che, lungi dall’offrire semplicemente al popolo il suo litro di sangue quotidiano, Robespierre tentò anche di arginare, a modo suo, la brama di vendetta del popolo, e di salvare quel che poteva delle gerarchie repubblicane.

Nulla di tutto questo nell’egualitarismo di oggi. Nient’altro che una folla, sempre più vicina al suo punto di massima potenza, che spinge per un’uguaglianza non già degli interessi, bensì della pochezza, dell’insipienza e delle corruzioni private. E tra i figli decomposti dei Lumi, tra gli eredi zombi di Rousseau in bilico tra vessazione, accecamento e disperazione, ecco un’uguaglianza che non è più un ideale, bensì spudoratezza, una specie di cappa scura, un alone di risentimento e di odio a cui si aggrappa la nostra lingua comune, come a una boa nella deriva. Altro disastro. Altro sconcerto. Dall’uguaglianza redentrice a questo egualitarismo lagnoso, abbiamo percorso tutto l’arco delle possibilità che accompagnano il corpo sociale dalla vita alla morte. Perché di questo si tratta. Non di crisi, e nemmeno di una «strana campagna elettorale», bensì di una strana sconfitta che muove i suoi ultimi passi. Non l’albero singolo di tale e tanta scelleratezza, ma la foresta fittissima di parole indistinte, e pertanto folli, a forza di degradazione. E in agguato, accompagnato dalle Eumenidi — che non deve sorprendere scoprirle sinonimo tanto di giustizia quanto di furia vendicatrice — si profila già un volto ben preciso, come, nelle antiche tragedie, l’avanzare ineluttabile di un destino funesto».