Lo Stato ha l’obbligo di proteggere le vittime di violenza domestica che denunciano il loro aguzzino. Questo stabilisce la sentenza della Corte europea dei diritti umani, che ha condannato l’Italia perché, «non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta dalla donna, le autorità italiane hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che in fine hanno condotto al tentato omicidio della ricorrente e alla morte di suo figlio». La sentenza di condanna per violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita), dell’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea dei diritti umani ha riconosciuto alla ricorrente 30mila euro per danni morali e 10mila euro per le spese legali. La ricorrente ha presentato una richiesta di indennizzo anche allo Stato italiano, per ottenere il risarcimento dei danni da parte del marito, condannato a pagare 400mila euro, ora in carcere a scontare la pena dell’ergastolo e nullatenente. Al netto della decisione dei giudici di Strasburgo, però, a far inorridire è prima di tutto il ricordo di una terribile vicenda di cronaca. L’orrore della violenza si è consumato il 26 novembre del 2013 a Remanzacco, un paesino in provincia di Udine. Andrei Talpis, un muratore di 50 anni di origini moldave, rientra in casa ubriaco alle 4 del mattino e inizia un furioso litigio con la moglie Elisaveta. Il figlio Ion, diciannovenne, interviene per difendere la madre e prova a disarmare il padre, che brandisce un lungo coltello da cucina. L’uomo, però, in preda alla furia, ferisce sia il ragazzo che la donna. Il primo muore sul colpo, lei invece viene ricoverata all’ospedale di Udine in gravissime condizioni. Solo dopo la tragedia si scopre la donna aveva denunciato più volte il marito per violenza, presentando anche referti ospedalieri, e aveva anche chiesto aiuto alle strutture del paese. L’uomo, però, non era mai stato allontanato dalla casa familiare e per lui non era nemmeno mai stata disposta una misura cautelare. «La donna si era rivolta a una casa rifugio a Udine, ma il Comune non aveva voluto pagare la retta perché non riteneva la sua situazione così grave. Per un po’ di tempo lei era rimasta gratuitamente, ma poi era tornata a casa, sentendosi totalmente abbandonata dalle istituzioni», ha spiegato l’avvocato della donna, Titti Carrano. Proprio su questo si sono fondate le ragioni del ricorso: «Nella storia di questa donna ci sono tutti gli elementi di violenza ripetuta, grave e soprattutto sottovalutata e non riconosciuta». E proprio queste argomentazioni sono state riconosciute dai giudici della Corte europea dei diritti umani, secondo i quali «la signora Talpis è stata vittima di discriminazione come donna a causa della mancata azione delle autorità, che hanno sottovalutato (e quindi essenzialmente approvato) la violenza in questione», e ancora «non ci sono spiegazioni plausibili per l’inerzia delle autorità per un periodo così lungo, sette mesi, prima di avviare il procedimento penale», nota la Corte, che accusa gli organi competenti di avere di fatto - rimanendo a lungo passivi - avallato la violenza. Gli avvocati della donna hanno sottolineato come, nel caso di Elisaveta, «non siano state applicate le leggi, né le è stata data la possibilità di essere protetta in una casa rifugio. A Elisaveta è mancato tutto: l’assunzione della responsabilità, il riconoscimento della violenza e la protezione istituzionale». Ora, a distanza di quattro anni dalla violenza e dopo l’ergastolo comminato al marito omicida, la donna si è trasferita a Udine, dove vive con la figlia Cristina. Il dolore insanabile della perdita di un figlio e della violenza subita, però, le hanno dato la forza di chiedere e infine ottenere giustizia contro uno Stato inerte, squarciando il velo di indifferenza che è stato - se non la principale - certamente una concausa della tragedia.