«Il Belgio è come un bottone che tiene unita una camicia». A parlare è Duncan Lloyd, regista del documentario, anzi del mockumentary su cui è fondato il geniale Un re allo sbando ( King of the Belgians) interpretato dall’ottimo e dolente Peter Van der Houwen. Non ci crederete, ma mentre lo fa è alla deriva su una barca serba, sta per arrivare in Albania perché ha sbagliato strada e sta interrogando il capo del protocollo del Palazzo Reale belga e il valletto di un monarca sulla rivalità atavica tra valloni e fiamminghi. Scena che è punto di partenza e di arrivo di questo bellissimo film di Jessica Woodworth e Peter Brosens, passato alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti. Scena e film che hanno le loro radici in questo piccolo regno, sempre più sofferente e lacerato ma anche culla di una cultura brillante, di geni assoluti, di una vitalità creativa e di una serietà lavorativa con pochi pari. Paese, nel film che è arrivato oggi nelle sale italiane ( qualche anteprima si è vista già ieri, in alcune città), che i nostri due cineasti immaginano decapitato e scisso. Già, perché il famoso vulcano islandese il cui nome sembrava una password per il wireless che bloccò davvero l’Europa per giorni, qui viene immaginato come causa di una crisi politica internazionale. Mentre Re Nicolas III, re burattino di mezza età e schiavo delle burocrazie, è in visita in una Turchia che vuole l’Europa, dalle sue parti le due metà della nazione si dividono, dichiarando reciproca indipendenza l’una dall’altra.

Lui non può tornare: aerei bloccati, obblighi diplomatici, cellulari inutilizzabili. Ma proprio in quel momento in cui la sua figura sbiadisce di fronte alla storia, capisce di avere una responsabilità. O meglio, riflette su di essa e sulla sua identità. E decide di accettare il piano bislacco di un regista di guerra divenuto poco più che paparazzo di lusso, di una fuga, ingaggiato dal Palazzo per dargli lustro e ora complice di un progetto più grande e sgangherato. Senza corona. E così oltre che sulla sua identità di regnante, rifletterà sull’essenza profonda del potere. Passando per la Bulgaria e i Balcani, rifletteremo, spettatori e autori, sull’identità europea attuale, in cui forse quel piccolo regno inquieto non è un vulnus ma di cui è solo uno specchio.

Il segreto di un on the road picaresco ed esilarante, sta tutto qui. Nel capire che il coacervo di anime e dolori che è questo vecchio e stanco continente è ormai un puzzle surreale, consumato da odi e buchi neri, economici e storici, ma anche da una umanità che può intaccare persino un re.

Un re che sembra uscito, all’inizio, da uno spin- off snob di The Crown, legato ai doveri formali e lontano dalla vita. Un re che sembra quello cantato da Jannacci, «che sempre allegri bisogna stare perché il nostro piangere fa male al re». Un re che, di fronte al sincero amore per i suoi sudditi, per ciò che rappresenta decide di diventare anche e finalmente un uomo.

I due autori hanno la fortuna di poter contare su una corte di attori di rara bravura. Peter Van der Begin, alto e austero, ma anche malinconico e con occhi così espressivi da consentirgli d’essere tutto in questo film ( cantante bulgara, giornalista, fonico e ovviamente monarca), si tiene sulle nervose e larghe spalle il film. Ma è la regia a consegnare l’essenza dell’opera agli occhi vibranti e severi di Lucie Debay, qui ufficio stampa di Nicolas III, coscienza e sensibilità di tutti gli uomini, imperfetti e fallaci, di questo teatrino. La sua ruvida fragilità si sfoga con quel regista - Lloyd - che in tutta la sua cialtroneria evidenzia proprio l’essenza del popolo europeo: seri, appassionati, ma anche istrioni e non di rado imbroglioni. Lui che ha fatto la guerra in Jugoslavia e ha firmato un capolavoro su un cecchino ex campione olimpico, negandosi una carriera da festival solo per un amico che si è pentito. Un amico sbagliato, ferito e feroce. Ma un amico. Lui probabilmente è un apolide nel cuore e nella mente, che non ha casa da nessuna parte e ovunque, che ha i Balcani nello stomaco e nei ricordi e il cinema nel cervello. Forse, proprio quella donna bella e sincera, che non ci e si concede neanche una catarsi personale, riesce a intuirlo e non a caso gli ruba, per pochi minuti, la videocamera.

Con questa Armata Brancaleone vestita all’ultima moda - sebbene nel prosieguo del viaggio perderanno stile e accessori - il re capisce che il segreto non è il popolo, è l’uomo; non è palazzo, è la strada; non è la politica, ma la piazza; non è il protocollo, ma le parole. Quelle sue parole che cerca di cesellare per tutto il viaggio: in autobus, su un’ambulanza, su un carretto a parlare di vita e di frutta con un contadino, ubriacandosi con un ex criminale di guerra.

E non è un caso che questo film venga da una coppia di artisti di Ghent, belgi, anche se a volte ci senti Mihaleanu e Kusturica dentro. E che venga da una terra che non ha pace, ma che ha sempre voglia di essere altro. Un luogo di integrazione sempre al limite della disintegrazione. Dallo specchio fedele e allo stesso tempo deformante dell’Europa. Il Belgio, appunto.