«Li tenevano appesi per 10 o 15 minuti. I più leggeri non morivano subito. Allora li tiravano giù e gli spezzavano l’osso del collo a calci» ; «Sentivo qualcosa, un pezzo di legno probabilmente, che veniva tirato via e poi il rumore di quelli strangolati. Se appoggiavo l’orecchio al pavimento sentivo come un gorgoglio. Dormivamo sopra gente che stava gorgogliando la propria morte». Sono alcune delle testimonianze raccolte da Amnesty sulla prigione militare di Saydnaya, in Siria, dove il regime di Bachar al Assad ha impiccato segretamente dai cinque ai tredicimila prigionieri da marzo 2011, inizio della rivolta civile, fino a dicembre 2015, culmine della guerra che ne è scaturita. Grazie alle interviste a 84 fra ex detenuti, ex guardie, giudici, avvocati e medici, Amnesty ha stimato che quasi 18mila persone sono morte a Saydnaya; che sono state utilizzate 35 tecniche di tortura; che quanto accadeva non poteva essere ignoto ai vertici militari e politici; e che «non ci sono ragioni per ritenere che tutto questo sia finito dopo il 2015».

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Saydnaya è un villaggio 40 km a nord di Damasco, in cima a una collina sulla via per Maaloula. La popolazione è cristiana e araba sunnita, con una presenza alawita. Lo splendido monastero greco-ortodosso di Nostra Signora di Saydnaya domina un paesaggio brullo. Nascosto da un’altra collina c’è il carcere più famoso della Siria, dove la morte viene offerta con spietata organizzazione. «L’edificio rosso era quello con le celle, e l’edificio bianco era quello delle esecuzioni. Nemmeno noi sapevamo che fine facevano i detenuti quando li consegnavamo alla fase successiva» racconta una guardia. Ogni lunedì sera una cinquantina di uomini vengono prelevati dalle celle, viene detto loro che stanno per essere trasferiti, vengono incappucciati e messi in fila fino all’edificio bianco, dove firmano un foglio che non possono leggere, e vengono fatti salire su una pedana, 15 o 20 per volta. È solo allora, con il cappio al collo, che capiscono la loro sorte. Poi, col favore delle tenebre, i corpi vengono caricati sui furgoncini e portati all’ospedale di Tishreen dove viene documentata la morte «per infarto o problemi respiratori», e infine sepolti nelle fosse comuni a Nahja.

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«Saydnaya è la fine dell’umanità» dice una ex guardia. Saydnaya è un posto dove «la morte è una liberazione» dicono i prigionieri. «Arrivavano camion con 50 o 60 uomini che venivano fatti scendere, spogliati e derubati di tutto. - raccontano - Poi i soldati li picchiavano con qualsiasi cosa: tubi di gomma, spranghe, cavi elettrici. Era la festa di benvenuto. Tutto quello che potevi vedere intorno a te era sangue, tuo e degli altri». Le torture prevedono botte, privazione del cibo e dell’acqua: «Un’estate faceva caldissimo e non ci facevano bere, né pulire la latrina. Siamo arrivati a bere la condensa delle mura e la nostra pipì». Altro strumento è la violenza fisica: «Ci facevano mettere in fila per andare al bagno, completamente nudi. Quindi sceglievano il più giovane e il più robusto e ordinavano al secondo di violentare il primo. Se si rifiutava gli infilavano qualsiasi cosa nell’ano». A Saydnaya si muore per impiccagione, per fame, sete, per le botte. Si muore perché «un inverno faceva molto freddo. Ci hanno lasciato in mutande con la porta spalancata. Quattordici della mia cella sono morti». Si muore per le infezioni perché «ci lanciavano il cibo sul pavimento fra sangue, merda e sporcizia. Ma non potevamo non mangiare». A Saydnaya si muore anche perché si diventa pazzi.

ADRA, SYRIA: Syrian prisoners stage a protest and a hunger strike the central prison in Adra, 15 kms from Damascus, in support of President Bashar al-Assad who is facing international pressure over a UN inquiry into the assassination of Lebanese former premier Rafiq Hariri, 16 November 2005. Assad vowed in a speech that Damascus would not surrender to the demands of its enemies and pledged that outsiders would not be able to change Syria's direction. AFP PHOTO/LOUAI BESHARA (Photo credit should read LOUAI BESHARA/AFP/Getty Images)

Nemmeno un terrorista, un jihadista o un criminale comune è a Saydnaya. Quelli sono stati liberati o trasferiti nelle sei amnistie decise da Assad dopo le prime proteste nelle città. A Saydnaya entrano manifestanti, studenti, oppositori politici, giornalisti, avvocati, attivisti per i diritti umani. Gente da impiccare dopo un processo farsa di un paio di minuti, gente il cui destino era già stato documentato nel libro La conchiglia, in cui Mustafa Khalifa racconta gli orrori vissuti da prigioniero di Tadmur, nel deserto siriano. All’epoca a capo della Siria c’era Hafez al Assad, responsabile della sparizione di circa 18mila persone fra il 1980 e il 2000. Suo figlio lo ha già superato.