«La scissione? L’unico modo che Renzi ha per evitarla è convocare il congresso». Massimo D’Alema lo ha detto ai dirigenti di Sinistra italiana che ha incontrato giovedì pomeriggio. Si tratta solo di un parere, ma probabilmente fondato. Basta chiacchierare con qualsiasi esponente della minoranza, anche scelto a caso, per trovare conferme a volontà.

Massimo D’Alema lo ha detto ai dirigenti di Sinistra italiana che ha incontrato giovedì pomeriggio. Si tratta solo di un parere, ma probabilmente fondato. Basta chiacchierare con qualsiasi esponente della minoranza, anche scelto a caso, per trovare conferme a volontà. Se dipendesse dall’ex segretario coi baffetti non basterebbe neppure il congresso. Però non è lui a decidere per la minoranza, anche se è stato lui a fare la mossa magistrale che ha fatto saltare i piani di battaglia, peraltro fumosi, di Renzi e a trasformare il Pd in un formicaio impazzito.

Per evitare sia il congresso che la scissione Renzi ha messo in campo una carta perdente in partenza: la proposta di sostituire le assise con le primarie e persino l’eventualità di non scendere direttamente in campo come candidato. Alla minoranza non può bastare. Quello dei gazebo è il terreno del fiorentino, una partita giocata solo sui nomi e per nulla sulla politica, magari ( ma questo è tutto da vedersi) sostituendo la testa di serie con un fedelissimo come Delrio o lo stesso Gentiloni. La minoranza vuole di più. Vuole rimettere in discussione quello che oggi viene definito con sprezzo «il Pd della lotta ai vitalizi e della demagogia sulle tasse». Il Pd di Renzi insomma.

La convocazione o meno del Congresso si tira dietro automaticamente il braccio di ferro sulla data delle elezioni. Renzi le vuole a tutti i costi entro giugno ma l’insistenza gli è già costato l’appoggio di quello che per tre anni era stato il suo più alto protettore, Giorgio Napolitano. Nel partito per la verità tutti ormai temono di dover votare dopo una manovra autunnale che sarà molto più lacrime e sangue di quanto ci si aspettasse anche nelle meno rosee previsioni. Quasi tutti preferirebbero arrivare alle urne prima del diluvio. Ma se esiste una strada per farlo evitando la scissione, cioè con la convocazione di quel Congresso che renderebbe impossibili elezioni prima dell’estate, nessuno la ha ancora trovata.

Anche perché nel merito della prossima legge elettorale lo sbandamento è altrettanto vertiginoso. La carta giocata da Renzi sembrava difficilmente contrastabile: un asse con Grillo e Salvini per forzare i tempi e conquistare le urne in giugno con una legge che doveva trasferire per quanto possibile al Senato la norma partorita dalla Consulta per la Camera, col premio alla lista e non alla coalizione. La mossa di D’Alema e la conseguente prospettiva di scissione hanno però reso quella carta pericolosissima: senza la minoranza e anzi con una vera lista unitaria della sinistra in campo, la possibilità di superare Grillo è poco più di un miraggio. Senza contare il rischio di essere sbaragliati sul campo, al momento di votare la nuova legge al Senato, sul fronte più nevralgico di tutti, quello dei capilista bloccati. Per Renzi, come per Berlusconi, sono questione di vita o di morte ma il neo- alleato Beppe invece li non vuole e la minoranza interna, che di voti al Senato ne conta parecchi, neppure.

Così Franceschini, il più potente tra i capibastone targati Pd, ha tirato fuori dal cilindro una strategia diametralmente opposta. Niente più asse con Grillo bensì con Berlusconi e con i centristi della maggioranza, da Alfano a Verdini, in nome del premio di coalizione al posto di quello di lista. Un inversione a U che è l’opposto di quanto sostenuto negli anni da Renzi e soprattutto che sbatte contro l’opinione opposta del principale alleato rimasto al segretario, il presidente del partito Orfini. Non che gli si possano dare tutti i torti: la coalizione imporrebbe di rendere immediatamente ufficiale un’alleanza con Alfano e Verdini e sulla sponda opposta con Pisapia (dato e non concesso che l’ex sindaco di Milano si trovi bene in tanta compagnia) che rischia di costare più voti di quanti non ne aggiunge e che, oltretutto, non basterebbe né a evitare la scissione né a garantire di governare poi senza doversi alleare con Berlusconi. Stato delle cose al momento: buio profondo.

Infine lo scenario europeo, dove le cose stanno messe se possibile anche peggio. Lo stratega del Nazareno aveva messo in conto una campagna elettorale tutta all’’ insegna della sfida contro l’Europa rigorista e per questo aveva imposto una lettera di risposta alla richiesta della Ue di una manovra aggiuntiva per 3,4 miliardi quasi offensiva, che non concedeva niente di quanto reclamato. La lettera è arrivata a Bruxelles mercoledì scorsa in tarda serata. Al mattino seguente Bruxelles aveva già comunicato a Roma che la punizione sarebbe stata durissima, ben più pesante dei 3,4 miliardi in questione. Nelle prime ore del pomeriggio il firmatario della lettera, Pier Carlo Padoan, si presentava in Senato col capo cosparso di cenere per dire l’opposto di quanto affermato nella battagliera missiva.

In questo caos totale una cosa sola è evidente. Non si può dire che Renzi, al momento di assumerne la guida, avesse trovato un partito in buona salute. Ma dopo tre anni della sua cura invece che guarito è in coma profondo.