E così, quasi senza accorgersene, l’Italia si è risvegliata proporzionalista. Sei lunghissimi mesi di campagna elettorale referendaria che doveva trasformare gli elettori in bradipi consenzienti ai voleri del capobranco e invece li ha adrenalinizzati, convogliandoli in massa alle urne per azzannare senza pietas. E poi altre 50 infinite albe prima che il Consesso dei Saggi insediato nel palazzo della Consulta emettesse il suo verdetto. Sette mesi vissuti pericolosamente e adesso bisogna aspettare che la polvere mediatica intrisa di conflittualità si depositi per capire dov’è finita la bussola che deve guidare il cammino del Paese. Nel frattempo - e sono tanti e variamente dislocati - c’è chi continua su quella polvere a soffiare, lavorando per prolungare la campagna elettorale ( vero mood al di qua delle Alpi: 67 governi in 68 anni di vita repubblicana cos’altro significano?) per tornare alle urne prima di spiaggiarsi nell’estate del solleone.

Nel frattempo, però, è cambiato tutto e nel Palazzo sono moltitudini che non se ne accorgono. Niente di strano.

Anche se non si è millenials, è un fatto che buona parte dei parlamentari e del leader di partito sono stati svezzati a colpi di bipolarismo maggioritario, indefettibilmente protesi a essere o di qua o di là. Adesso che quello spartiacque è evaporato non sanno dove piazzarsi. Alcuni fanno i trasformisti; altri cercano nuove categorie identificative; altri ancora se ne fottono. Non sanno o non comprendono che un virus è entrato nel corpaccione delle istituzioni ed è destinato a incidere con sempre più forza.

Si tratta della politica: quella virtù repubblicana negletta e trascurata da venticinque anni di duelli muscolari, durissimi e farlocchi, esibiti per ultimo a colpi di tweet, e che adesso si prende la rivincita.

Proprio così, questa è la conseguenza più importante e più vera che scaturisce dalla decisione della Corte costituzionale: con il proporzionale torna la politica intesa come abilità di progettare, di valorizzare l’identità, capacità di saper mediare per poter prevalere. Chi capirà per primo la lezione, sopravviverà e sovrasterà gli altri. Chi no, è destinato ad assumere il color seppia delle fotografie nel cassetto. Almeno fino ad un altra riforma del meccanismo di voto, ovvio.

Dunque l’interrogativo vero è capire come sarà l’Italia ai tempi del proporzionale 2.0. Per arrivarci, meglio partire da ciò che il confronto politico non sarà più. Nel maggioritario piombato sulle macerie dei partiti terremotati da Tangentopoli, l’elemento saliente era costruire un modello contro o anti; guadagnare il consenso attraverso l’avversione verso il competitor.

Anti vecchia politica, anti Palazzo, anti comunista, anti berlusconiano: sono state queste le giaculatorie che dagli schermi tv prima e dai siti Internet poi, i capi partito hanno dispiegato sull’opinione pubblica. Più che sulle cose dette, l’identità degli schieramenti si è configurata sul contrasto con l’avversario.

Il proporzionale rovescia il modello: l’identità si determina non più sulle parole d’ordine contro bensì su quelle per. Il problema è che bisogna trovarle.

E per questo serve la capacità ed il talento della politica: merce purtroppo ormai rarissima. Serve la politica perchè il maggioritario era un sistema pensato pressoché esclusivamente come laboratorio della costruzione di una leadership. Lo schieramento vincente era un alveare dove tutti portavano il loro contributo per ingrossare l’ape regina. Il proporzionale, al contrario, privilegia la collegialità e la leadership è il prodotto di quella collegialità. Nel maggioritario il leader era tutto e chi provava a fare ombra veniva stroncato. Nel proporzionale il leader è il frutto di un accordo: se diventa troppo ingombrante, viene estromesso.

Per capirlo, basta riandare agli esempi del passato. A quando Amintore Fanfani, la cui leadership nella Dc era talmente indiscussa da trasformarsi in indiscutibile, crebbe così tanto da diventare detentore di un triplo incarico: segretario del partito, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri. Toccò l’apogeo e solo pochi mesi dopo fu defenestrato. Idem per Ciriaco De Mita. Si presentò capo del partito e premier al XVIII congresso della Balena Bianca, dopo sette anni di dominio assoluto dello Scudocrociato. Nel giro di cinque giorni fu rovesciato: la sinistra perse a favore del centro doroteo appoggiato da Andreotti, e alla segreteria tornò Arnaldo Forlani, già segretario nel 1969. «E’ come se Ciriaco si ricandidasse tra vent’anni», chiosò Sergio Mattarella, esponente di spicco della sinistra di Base. Nel proporzionale, dunque, i leader si disfanno. E si fanno. Come accadde a Bettino Craxi nel congresso del Psi tenutosi al Midas nel 1976. I socialisti venivano da batoste elettorali che li avevano portato sotto la soglia di sopravvivenza del 10 per cento. Bisognava sostituire un capo carismatico come Francesco De Martino, storico braccio destro di Pietro Nenni. I maggiorenti del partito si facevano la guerra l’un l’altro: Manca contro Signorile, Mancini versus Lagorio, Formica battitore libero. E nessuno riusciva a prevalere.

Così la scelta cadde su Bettino Craxi, considerata opzione di transizione facilmente liquidabile al momento opportuno. E’ finita come sappiamo. «La politica è sangue e merda», chiosò successivamente Formica. Che poi nel 1991 definì l’appena varata l’assemblea nazionale del Psi un consesso di “nani e ballerine”. Per infine precisare: «La politica è per gli uomini il terreno di scontro più duro e più spietato». Qualcosa del genere aveva scritto Nicolò Machiavelli, che la politica la inventò, cinquecento anni prima. C’era anche il Pci perché, come cantava Giorgio Gaber, «qualcuno era comunista». Nell’Elefante rosso fino alla fine è prevalso il centralismo democratico di togliattiana memoria. Il che non significava che mancassero scontri tra personalità: resta impresso l’XI congresso e Pietro Ingrao, profeta della sinistra interna contrapposto al protomigliorista Giorgio Amendola, che sale sul palco e dice: «Non sai sincero se dicessi che mi avete persuaso».

Torniamo all’Italia di adesso. Il proporzionale varato dalla Consulta presenta aspetti di dissonanza tra Camera e Senato.

Vale per i capilista bloccati a Montecitorio e non a palazzo Madama ( sicché il nuovo Prodi dovrà nascere senatore?); vale per gli sbarramenti, bassi nel primo ramo del Parlamento e alti nel secondo; vale per la logica di lista che prevale per i deputati e per quella di coalizione che contraddistingue i senatori.

Ma il dato più significativo prescinde dalle tecnicalità del meccanismo di voto. E’ lo scenario complessivo che muta; è il perimetro del campo di gioco che viene ridisegnato. Passare dal maggioritario al proporzionale è come virare dal calcetto alle partite 11 contro 11. Cambia lo schema, cambia l’atteggiamento.

Il maggioritario era costruito sull’affondo; il proporzionale privilegia il ragionamento. Il primo è camaleontico e veloce perchè bisogna cambiare, e spesso, il messaggio per calamitare e affascinare continuamente l’opinione pubblica. Il secondo è tartarughesco: piede sollevato dall’acceleratore, la priorità è costruire parole d’ordine che si sedimentino nell’immaginario collettivo. Il primo è decisionista; il secondo è collegiale. Il primo punta all’uomo forte; il secondo di forte pretende le idee e le convinzioni. Nel primo la mutevolezza di opinione fino a punte di vera e propria contraddittorietà non è percepito come colpa. Nel secondo, la coerenza è decisiva: anche a costo di scontrarsi con i tempi che cambiano. Nel primo - ed è il tratto più caratterizzante - si sceglie sopra ogni cosa e primariamente il governo e l’uomo che lo deve guidare: è questo che sostanzia la competizione e la campagna elettorale. Nel secondo si sceglie l’appartenenza e il governo si decide ad urne chiuse, dopo aver misurato i rapporti di forza e individuato le adeguate convergenze.

Ma il vero elemento distintivo tra i due sistemi sono i partiti. Il maggioritario li vuole quanto più possibile liquidi, oceani di fluidità che servono a far emergere i leader e poi farli nuotare liberi. Il proporzionale gli stessi partiti li richiede aggregativi, nuclei fondanti di un organismo politico che senza non vive. Ed è qui l’incongruenza, la vera e propria antinomia che può far saltare il sistema elettorale appena riabilitato. Servono i partiti ma i partiti non ci sono, o non ci sono più. Quelli storici li ha sbriciolati la stagione del maggioritario; quelli che si formano adesso sono uniti dal clic sulla tastiera del computer e organizzati secondo gli algoritmi dei sacerdoti della Rete. Manca la gente, manca la partecipazione, mancano le strutture e le articolazioni sul territorio. I partiti, che vivificano il sistema quando sono sani e lo affossano quando il troppo potere o i troppi soldi li seducono, sono poco più che ectoplasmi. E’ per questo che il proporzionale è tornato ma il sistema politico si ritrova come quelle signore un po’ blasé che devono andare alla festa e sussurrano: ma insomma, non ho niente da mettermi.