Randolfo Pacciardi è stato uno dei protagonisti del ventesimo secolo. È uno dei “ragazzi del ‘ 99” nella Prima Guerra mondiale, comanda la brigata Garibaldi nella guerra di Spagna, dove ferito viene soccorso da Pietro Nenni e tra i due nasce una forte amicizia. È stato vicepresidente del Consiglio e ministro della Difesa. Negli anni 60 l’opposizione al primo governo di centrosinistra gli costò l’espulsione dal Pri. Il suo sogno era quello della Repubblica presidenziale.

Luciano Violante accusò Edgardo Sogno per un colpo di Stato e Pacciardi fu inquisito per “concorso in cospirazione politica”, poi prosciolto.

Febbraio del 1937. Sulle sponde del fiume Jarama, in Spagna, si combatte una delle più importanti e sanguinose battaglie della guerra civile che oppone l’esercito repubblicano alle formazioni golpiste guidate dal generale Francisco Franco. In prima linea, tra i repubblicani, c’è un ufficiale alto, robusto, che corre verso un avamposto presidiato da un nido di mitragliatrici. Le schegge di una cannonata lo colpiscono, lo sbattono a terra. Sviene. Al risveglio vede un uomo che gli fascia teneramente con un fazzoletto il viso sanguinante e gli dice parole affettuose. Il primo è il repubblicano Randolfo Pacciardi, comandante della brigata Garibaldi, composta da volontari italiani. Il secondo è il socialista Pietro Nenni. Si conoscono da tempo, accomunati dalla lotta antifascista, ma è nelle giornate passate insieme sui campi di battaglia spagnoli che la loro amicizia si consolida.

Un’amicizia che non cesserà neanche quando, più di dieci anni dopo, si troveranno in Italia su campi opposti. Nel primo dopoguerra Pacciardi è ministro della Difesa nei governi centristi presieduti da De Gasperi, e Nenni guida il Partito socialista nel patto d’unità d’azione con il comunista Togliatti. Nel decennio successivo Nenni è uno degli artefici del centrosinistra con la Dc, e Pacciardi all’opposizione, contrario all’ingresso dei socialisti nella “stanza dei bottoni”. Hanno scontri memorabili in Parlamento, ma fuori da Montecitorio mantengono inalterata la loro amicizia. Spesso pranzano insieme e, alle rimostranze di Pacciardi, che è il più impulsivo tra i due, Nenni risponde, pacato: «Che cosa vuoi, non farci caso, è la politica».

Del leader socialista oggi si sa tutto, del repubblicano Pacciardi, poco, sebbene sia stato uno dei protagonisti italiani del ventesimo secolo. Io ne so un po’ di più. Nel 1990 raccolsi le sue confidenze in un libro- intervista dal titolo Cuore da battaglia.

Quando andai a trovarlo la prima volta in via del Pollaiolo, 5, a Roma, trovai un novantenne vigoroso dagli occhi chiari e penetranti che brillavano di fuoco giovanile quando rievocava i momenti più significativi della sua lunga e avventurosa vita. Tutto comincia con la prima guerra mondiale, quando, nel 1917, sono chiamati alle armi i “ragazzi del ‘ 99 non ancora diciottenni. Pacciardi lascia Grosseto, la sua città natale, e va a combattere. Nel giro di un anno ottiene due medaglie d’argento, una di bronzo, la Military Cross britannica e la francese Croix de guerre avec palmes. A guerra finita, s’impegna nella lotta all’incombente fascismo. E, insieme a Raffaele Rossetti, l’affondatore della corazzata austriaca “Viribus Unitis”, fonda l’” Italia libera”, un’associazione di combattenti antifascisti. Da molto fastidio a Mussolini che sul combattentismo fonda gran parte della sua fortuna politica e che confida ai suoi: «È bene che la smetta, questo insulso avvocatino di Grosseto».

Ma l’insulso avvocatino riesce a sfuggire all’arresto con una fuga rocambolesca sui tetti di Roma e a rifugiarsi in Svizzera, da dove guiderà una centrale operativa dei fuorusciti antifascisti. È a Parigi nel 1936 quando le truppe del generale Franco si ribellano al governo di Madrid. I primi a formare una colonna di volontari italiani in difesa della repubblica spagnola sono Carlo Rosselli e l’anarchico Mario Angeloni. Si aggregano in Catalogna alle milizie libertarie di Durruti e Ascaso, eroiche, ma tutt’altro che militari. Pacciardi sa che cos’è una guerra e come si combatte. Vuole qualcosa di più di una colonna di idealisti generosi, vuole una formazione militarmente preparata. Insieme con Luigi Longo va a Madrid, concorda con il ministro della Difesa, Indalecio Prieto, i particolari dell’impresa. Nasce il battaglione Garibaldi ( poi brigata), inserito nelle brigate internazionali. Lui ne è il comandante. E guida i volontari nella difesa di Madrid, nelle battaglie di Huesca, di Villanueva del Pardillo, del Jarama, di Guadalajara e sul fronte di Morata de Taluna. A Guadalajara, nel marzo del 1937, è in corso un’offensiva dei franchisti che tentano di arrivare a Madrid. Hanno messo in campo uno dei loro reparti più potenti, la divisione Doria, e quattro divisioni italiane ( trentamila uomini), mandate in Spagna da Mussolini e comandate dal generale Roatta. I repubblicani hanno schierato le formazioni guidate dai generali Lister e Modesto, insieme con le brigate internazionali. Tra queste, la brigata Garibaldi. E sono gli antifascisti italiani, in uno scontro durissimo, a sconfiggere e mettere in fuga i connazionali fascisti. È un’anticipazione della Resistenza, la conferma della parola d’ordine di Carlo Rosselli: “Oggi in Spagna, domani in Italia”. Herbert Mattews, corrispondente di guerra del New York Times, scrive che questa battaglia era stata per Mussolini quello che per Napoleone era stata la sconfitta di Baillén nel 1808, in territorio spagnolo.

In Spagna Pacciardi stringe amicizia con André Malraux e con Ernest Hemingway. Lo scrittore americano parlerà spesso lui e della brigata Garibaldi: nel film documentaristico Tierra de Espana, nel romanzo Al di là del fiume, tra gli alberi, nelle corrispondenze di guerra. Lo definisce “beatiful in action, come il maresciallo Ney”. Ma è un’amicizia che nasce da una sconfitta in amore. Val la pena di raccontare come è andata. CorrisponÈ dente di guerra di un giornale americano è una bella donna, Marta Gelhorn. Una sera va a trovare Pacciardi per avere notizie. Lui ne è affascinato. Trova un modo non banale per conquistarla. «Invece di scrivere sciocchezze sulle retrovie», le dice, «perché non partecipi con me a un’azione di guerra?». Lei è d’accordo. L’indomani Pacciardi l’accompagna al fronte. Al ritorno attraversano un bosco. Tutt’intorno si continua a sparare. «Chi spara?» chiede Marta. «I nostri, i nemici, tutti», risponde Pacciardi. E aggiunge che sarebbe meno pericoloso passare la notte lì, tra gli alberi, Ha portato con se una coperta, la stende per terra e pensa «è fatta», quando la donna lo gela: «Sono nelle tue mani, Ma sappi che non sono d’accordo. Sarebbe una violenza». Inutile dire che a questo punto la strada per il ritorno fu percorsa facilmente, malgrado gli spari. Marta Gelhorn viveva in quel tempo con Hemingway, di cui sarebbe diventata qualche anno dopo la terza moglie. Ma il comandante italiano lo scopre solo pochi giorni dopo l’avventura nel bosco. Lo scrittore non serberà rancore al rivale.

Pacciardi perde il comando della brigata nel giugno del 1937. Gli era stato ordinato di recarsi con i suoi uomini da Madrid a Barcellona dove, gli era stato detto, i franchisti avevano sferrato un attacco. Durante il tragitto, scopre che, in realtà, gli italiani avrebbero dovuto partecipare alla decimazione degli anarchici e dei trotskisti del Poum, ordinata ai comunisti spagnoli dai consiglieri sovietici. Non ha un attimo di esitazione: «Si ritorna indietro, a Madrid». Un gesto che gli costa la destituzione.

Dopo pochi mesi Pacciardi lascia la Spagna. Nel 1939 è negli Stati Uniti, dove svolge un’intensa propaganda antifascista insieme con Salvemini, Toscanini, don Sturzo. Poi, ancora Francia. È a Parigi all’entrata in guerra dell’Italia e tenta di costituire una legione italiana per partecipare all’impegno bellico degli alleati. Ma non ci riesce. Ne parla anche con De Gaulle. «Ma il generale», scrive Pacciardi nelle sue memorie, «pensava solo alla Francia e se ne infischiava di tutto il resto». Quando le truppe tedesche arrivano nella capitale francese, si rifugia a Casablanca e da lì ancora una volta negli Stati Uniti, dove resta fino alla fine della guerra. Negli ultimi mesi del 1944 è a Roma, riorganizza il Partito repubblicano e ne diventa segretario. L’Italia in quegli anni è divisa tra repubblicani e monarchici. Vittorio Emanuele III ha abdicato a favore del principe Umberto, il “re di maggio” che regnerà soltanto per un mese. Il 2 giugno del 1946 si svolge il referendum tra repubblica e monarchia. contemporaneamente alla votazione per l’Assemblea Costituente, alla quale partecipano per la prima volta le donne. Pacciardi si lancia con foga nella campagna elettorale, una delle più turbolente della storia d’Italia. Ed è Repubblica, con un distacco di due milioni di voti. Ma l’esito è contestato. I monarchici parlano di brogli elettorali e sembra che Umberto intenda invalidare la votazione. Pacciardi non ha esitazione, pubblica La Voce repubblicana con un titolo di prima pagina a nove colonne: “ARRESTATE IL RE”. Ma non ce n’è bisogno. Il 13 giugno il re lascia Roma in aereo verso l’esilio di Cascais.

Nell’Assemblea Costituente, il leader repubblicano è tentato di sostenere la Repubblica presidenziale, che costituirà un suo cavallo da battaglia degli anni a venire. Non lo fa, dice, «perché non me la sentii di parlare a favore di un ordinamento che da grandi poteri a un uomo solo, proprio mentre uscivamo da una lunga notte durante la quale un uomo solo aveva provocato quel terribile sconquasso». Lo fa, invece, Piero Calamandrei. E, quando stanno per concludersi i lavori della Costituente, gli manda un bigliettino in cui c’è scritto: «Aspettavamo l’evento tutti lieti/ ed è arrivata questa, Dio ci aiuti, / repubblica monarchica dei preti». Nel 1947 Pacciardi è vicepresidente del Consiglio nel primo dei governi De Gasperi. Nei successivi, dal 1948 al 1953, è ministro della Difesa. Si deve a lui la ricostruzione dell’esercito italiano. Ed è tra i primi a sostenere la necessità dell’adesione dell’Italia alla Nato, superando le titubanze di Saragat che rappresentava i socialdemocratici nel governo e che doveva tener conto delle posizioni anti- Nato esistenti all’interno del suo partito. Il Consiglio dei ministri approva l’ingresso italiano nell’alleanza atlantica. Ma la decisione finale spetta al Parlamento. E lì son dolori. Perché socialisti e comunisti si oppongono strenuamente all’adesione. Pacciardi diventa per gli antichi compagni il capofila dei venduti agli americani, dei reazionari, dei servi del capitalismo. Il dibattito parlamentare è senza esclusione di colpi: interventi infuocati, scontri durissimi non soltanto verbali. I comunisti cercano di evitare la votazione finale e fanno muro per non fare arrivare i deputati alle urne. Giancarlo Pajetta apostrofa i ministri: «Vigliacchi, venite avanti se ne avete il coraggio». Pacciardi non se lo fa dire due volte. Avanza deciso con una mano nella tasca della giacca come se avesse una pistola. Dopo un’esitazione iniziale, i comunisti si scostano. Pacciardi passa, gli altri deputati passano. Il 17 marzo del 1949 la Camera approva l’adesione italiana alla Nato. Pochi giorni dopo approva anche il Senato.

I guai, per il leader repubblicano cominciano negli anni Sessanta. Democristiani e socialisti stanno per costituire il primo governo di centro- sinistra. E lui non ci sta. Con l’ostinazione che lo caratterizza da sempre, è fedele al centrismo, non crede maturi i tempi per l’ingresso del Psi di Nenni al governo. Quando la nuova compagine si presenta in Parlamento, pronuncia un duro discorso e vota contro la nuova formula governativa. Perdendo, così, amicizia e solidarietà dei democristiani, dei socialdemocratici, dei liberali. Perfino degli stessi repubblicani, perché Ugo La Malfa ha conquistato la maggioranza nel partito, lo ha schierato sul fronte del centro- sinistra e ora ottiene l’espulsione di Pacciardi dal Pri. Si aggiungano i vecchi avversari socialisti e comunisti, i neofascisti, e il quadro sarà completo: è nato un nemico per tutto il fronte politico italiano. Il vecchio combattente è solo ma non si tira indietro. C’è un’antica battaglia che ha esitato a combattere alla Costituente, la Repubblica presidenziale. Ora ne fa lo scopo principale della sua vita. Ammira De Gaulle e sostiene che il generale sia stato il salvatore, non l’affossatore della democrazia francese, come si riteneva a sinistra. Fonda un nuovo gruppo politico, l’Unione Democratica per la Nuova repubblica” e un quotidiano, Folla.

Ma non è un bel periodo per Pacciardi. Isolato dal mondo politico che gli era congeniale, si circonda di personaggi discutibili, di giovani provenienti dall’estrema destra. Quando Luciano Violante, allora magistrato a Milano, accusa Edgardo Sogno, di aver progettato un colpo di Stato, Pacciardi è raggiunto da una comunicazione giudiziaria per “concorso in cospirazione politica”. Gli viene perfino ritirato il passaporto, ma restituito prontamente quando manda una dura lettera a Violante, scrivendo fra l’altro: «Non sono mai scappato, né di fronte ai soldati austriaci, né di fronte ai fascisti. Non scapperò di certo ora». Ed è prosciolto in istruttoria insieme con gli altri imputati. L’isolamento finisce nel 1981, quando è riammesso nelle fila e nella direzione del Partito repubblicano. Giorgio La Malfa, figlio di Ugo, dice di lui: «Pacciardi si è trovato troppe volte al crocevia della storia per pensare che si tratti di casi o di fortuna e non, invece, per via del suo accanito impegno politico».

Quando nel 1990 viene presentato nella sala stampa estera il libro- intervista Cuore da battaglia, Pacciardi sembra ringiovanito. Intorno al tavolo con i microfoni siedono, insieme con lui e con me, Leo Valiani, Antonello Trombadori, Antonio Ghirelli, e Ugo Intini. Valiani non usa mezzi termini. Definisce Pacciardi “un eroe”. E Trombadori gli chiede scusa, da comunista, dell’ingiusta quarantena alla quale la sinistra l’aveva condannato per troppi anni. Giunto il suo turno, lui ci regala, malgrado i novanta anni, un saggio convincente della sua antica abilità di confererenziere, del suo umorismo, dei suoi scatti da oratore nato. Appena in tempo. Pacciardi muore l’anno dopo e il Presidente della Repubblica, Cossiga, dispone che siano celebrati i funerali di Stato.