«Basta leggere la politica con le lenti del Novecento». Gaetano Quagliariello, senatore di area moderata e presidente di “Idea”, chiede una «rigenerazione del centrodestra» a partire dalla coalizione, «perché non è più il tempo di politiche centriste, vanno tenute in gioco anche le forze estreme».

Senatore, si apre un anno pieno di incognite per la politica. C’è anche qualche certezza?

La certezza è che il sistema politico è cambiato: siamo passati dal bipolarismo al tripolarismo. Anche per questo l’errore da evitare è analizzare l’oggi con le categorie del mondo di ieri.

Anche quella dei moderati è una categoria di ieri?

Il moderatismo va reinterpretato. Nel Novecento era rappresentato dal ceto medio, ovvero quella parte fondamentale della società italiana, il cui benessere è coinciso con il benessere della nazione. Il ceto medio, storicamente, ha sempre fatto scelte pragmatiche e poco ideologiche e, in questi anni in cui è stato così duramente colpito dalla crisi, ha perso la sua propensione alla moderazione. Oggi il ceto medio, insomma, tende a fare scelte molto forti.

Un nuovo ceto medio ha bisogno di un nuovo centrodestra?

Ha bisogno di un centrodestra che comprenda il nuovo sistema politico, comprenda come è cambiato il moderatismo e aggiorni la propria agenda politica, tenendo conto dei problemi nuovi del Ventunesimo Secolo.

Partiamo da quest’ultimo elemento, cosa andrebbe scritto nella nuova agenda politica?

Gli elementi fondamentali di un nuovo programma sono fisco, lavoro, welfare, immigrazione, questioni etiche, Sud e ricostruzione della zona appenninica. In aggiunta a questi, un’idea comune sull’Europa e sull’euro. Se su que- sti punti si arriverà a solide soluzioni, ci si potrà candidare al governo del Paese, perché una comunità non va ricostruita dal tetto ma dalle fondamenta.

Il suo è un riferimento all’annoso tema della leadership, proprio quando il nome di Stefano Parisi è tornato a fare capolino. Troppo tardi?

L’assunto di partenza è che il contributo di chiunque è ben accetto, purché si usi una particolare umiltà, sentendosi operai e non immediatamente capicantiere. Fermo restando che, senza conoscere la legge elettorale, tutte le ipotesi sul futuro leader sono chiacchiere, parole al vento.

Un ragionamento, questo, che vale anche per Silvio Berlusconi?

Berlusconi è titolare di una forza propria, lo ha dimostrato anche nel referendum costituzionale. Il suo ruolo resta essenziale, ma ritenere che sia anche sufficiente significherebbe fare l’errore che accennavo prima: parlare con il linguaggio del mondo di ieri a una realtà che è cambiata.

Proprio la legge elettorale è il tema scottante sul tavolo del governo. Proviamo a tracciare qualche linea guida?

Prima di tutto è necessario aspettare la sentenza della Corte Costituzionale, dopo gli sfaceli combinati negli ultimi tempi. Quanto agli aspetti di merito, io credo serva una legge elettorale che agevoli la formazione delle coalizioni e che permetta la governabilità, ma senza pretendere di imporla.

Eppure il gioco, in un sistema tripolare, si fa più complicato e il rischio di instabilità è forte...

Certo, ma l’errore maggiore che si può commettere è di scrivere una legge elettorale contro i 5 Stelle. Nel vecchio quadro politico vinceva la squadra che faceva meno autogol, in questo invece gli autogol di destra e sinistra fanno crescere il monte reti solo del Movimento 5 Stelle. In questo senso gli attacchi esasperati ai grillini sortiscono l’effetto contrario: spesso sono così smaccatamente fuori dalle righe da diventare controproducenti, perché l’elettorato ne comprende l’esagerazione. La prima risposta, invece, deve essere una riqualificazione della nostra proposta.

Tra gli elementi che la legge dovrebbe avere, lei ha richiamato quello di favorire le coalizioni. Non è un ritorno al passato?

Io non sono un fanatico delle coalizioni, ma bisogna tener conto del particolare momento politico. Oggi sia il centrosinistra che il centrodestra farebbero un errore a isolare le forze estreme, che interpretano con più facilità alcuni riflessi della pubblica opinione.

Basta con le convergenze al centro, dunque?

Sarebbe pericolosissimo inseguire accordi preventivi al centro: i governi di unità nazionale sono governi di emergenza e non di programma, e proporli significherebbe fare il gioco delle forze estreme. Non è il momento per politiche neo- centriste. Centrodestra e centrosinistra dovrebbero cercare di tenere al proprio interno e controllare le posizioni più estreme. In caso contrario, il vero rischio è che la somma degli estremi sia maggiore della somma dei voti dei cosiddetti partiti moderati.

Questo significa, per voi del centrodestra, ritrovare la quadra con la Lega Nord di Matteo Salvini, che su temi come l’immigrazione ha lanciato fughe in avanti?

Bisogna ricomprenderlo in un discorso comune, trovando i punti comuni di caduta sul problema dell’immigrazione come su altri temi scottanti, come l’Europa.

Oggi, però, al governo c’è Paolo Gentiloni. Ha apprezzato il cambio a palazzo Chigi?

Con un premier che conosce la buona educazione politica, a cambiare, per ora, è stato sprattutto lo stile. Quanto alla sua permanenza, il maggior ostacolo sono i renziani e non per ragioni programmatiche ma per un riflesso politicista. Vorrebbero correre a elezioni anticipate, nella speranza di capitalizzare almeno una parte di quel 40% preso al referendum costituzionale.