Indagati il direttore del carcere di Rebibbia ( non più in carica da qualche settimana), il capo dell’ufficio detenuti del Provveditorato regionale ( già coinvolto nella vicenda di Stefano Cucchi, condannato in primo grado per abuso d’ufficio e falso, assolto per due volte in appello dopo un annullamento della Cassazione) e il comandante di reparto della polizia penitenziaria per l’evasione di tre reclusi albanesi avvenuta il 27 ottobre scorso. Nei loro confronti il pm Nadia Plastina contesta il reato di ' colpa del custode', una inosservanza colposa nelle regole di vigilanza all’interno della casa circondariale. C’è però chi teme che tale inchiesta possa ripercuotersi sulle varie conquiste acquisite nel tempo per il recupero dei detenuti. Nello specifico c’è il rischio che i capi d’accusa emessi dalla procura di Roma mettano in discussione le politiche penitenziarie dirette alla responsabilizzazione e alla risocializzazione delle persone detenute.

Susanna Marietti, la coordinatrice nazionale di Antigone, ha infatti denunciato che «l‘ imputazione del reato di ' colpa del custode' nei confronti del direttore, del comandante di reparto e di un certo numero di poliziotti penitenziari, può costituire un freno ingiusto nei confronti di chi è impegnato in attività dirette al recupero sociale dei detenuti». Marietti poi spiega: «Il comandante sarebbe stato accusato tra le altre cose di non aver accompagnato costantemente i detenuti nei loro spostamenti interni al carcere. Ma è lo stesso Consiglio d’Europa a raccomandare che la vita in carcere sia per quanto possibile simile a quella esterna e consenta spazi di libertà capaci di responsabilizzare le persone detenute.

La cosiddetta sorveglianza dinamica, che non punta solamente al contenimento, ha fino a oggi avuto buoni risultati». La coordinatrice di Antigone infine conclude: «Una simile imputazione penale nei confronti di chi ha ruoli di direzione e di gestione della sicurezza all’interno di un carcere rischia di inibirne una gestione aperta e rispettosa della dignità umana. A tal fine andrebbero riviste o cancellate quelle norme che prevedono una responsabilità colposa e non dolosa degli operatori penitenziari».

I tre detenuti evasi, che sono ancora latitanti, hanno seguito un tragitto identico a quello dei colleghi evasi prima di loro: si sono arrampicati sulla stessa parte del muro di cinta, dopo aver segato le sbarre della cella. Prima di calarsi di sotto, hanno avuto il tempo di misurare la distanza che li separava dal suolo, utilizzando delle scope. Secondo la Procura, la colpa degli indagati consisterebbe nell’aver omesso «le doverose cautele e nella violazione delle norme regolamentari, nonché delle norme generiche di prudenza, la cui osservanza avrebbe impedito o reso più difficoltoso l’allontanamento dei detenuti». Si parla di «carenze molto rilevanti e diffuse a tutti i livelli», di scambi di informazioni tra detenuti, di coltelli e seghetti nascosti nelle celle. I pm denunciano anche anomalie nelle perquisizioni effettuate del personale «che non ha garantito l’effetto sorpresa». L’ex direttore Mariani, sempre secondo i pm, «ometteva di rimediare alle carenze organizzative». Il 28 maggio, con un ordine di servizio «sopprimeva la vigilanza armata», consentendo ai fuggiaschi di allontanarsi con un’azione analoga a quella dei loro predecessori.

Ma la soppressione della vigilanza armata non è un reato, così come la vigilanza dinamica è una conquista che riguarda il recupero dei detenuti. Tale conquista viene messa puntualmente in discussione quando si verificano casi di cronaca come è accaduto con Rebibbia. La vigilanza dinamica avviene attraverso il “regime aperto”, il quale consente ai detenuti di trascorrere parte della giornata fuori da quella che impropriamente viene indicata come ' cella', ma che la norma ( art. 6 Ordinamento penitenziario) definisce ' locali destinati al pernottamento'. Una circolare del Dap del 18 luglio 2013 spiega il concetto di ' carcere aperto'. È un chiaro riferimento all’art. 6 della Riforma penitenziaria del 1975 che definisce le celle come luogo di pernotto, intendendo che la vita del detenuto debba normalmente svolgersi al di fuori di esse. Questo tipo di regime, inoltre, ha l’obiettivo di responsabilizzare le guardie penitenziarie e non confinarle in un ruolo di mera custodia.