Ancora un giorno di passione per la sindaca di Roma Virginia Raggi. Dopo l'avviso di garanzia all'ex assessora Muraro, l'arresto di Raffaele Marra e la bocciatura del bilancio, la tegola del giorno arriva da Cantone: "L'Anac ritiene configurabile il conflitto di interessi" per il caso che riguarda Marra e la nomina di suo fratello Renato. Cantone si è "preoccupato" di portare tutte le carte del caso in procura, secondo molti osservatori l'avviso di garanzia per Virginia Raggi è solo questione di giorni.  Nel frattempo dentro il Movimento è iniziata la guerra per la leadership. Non basta, infatti, essere “famosi”. Bisogna anche saper ascoltare i suoni che provengono dalla pancia del proprio partito per evitare di ritrovarsi generale senza truppe.

È questo il limite di Luigi Di Maio: onnipresente sui media ma troppo distante dai colleghi. Perché, a sentire i parlamentari, il vice presidente della Camera non si vede mai in giro: diserta le assemblee e non condivide le decisioni con gli altri “portavoce”. «Avrà altro da fare», dice chi prova a difendere senza alcuna convinzione il comportamento del “delfino” designato. Le assenze non sarebbero legate solo agli impegni istituzionali, ma anche all’indole schiva di Di Maio. Un tratto caratteriale che adesso potrebbe costargli l’isolamento. In molti temono che i risvolti delle inchieste su Marra possano provocare altri terremoti, aggravando la posizione politica di chi è stato additato dai suoi compagni come il «piccolo stratega» della difesa a oltranza di Virginia Raggi. I guai capitolini hanno creato solchi profondi nel gruppo dirigente, costringendo il “garante” a esautorare il Direttorio, diventato nel frattempo terreno di una guerra tra bande. All’ombra del Campidoglio sono stati ridisegnati gli equilibri interni al M5s, creando convergenze improbabili in nome di un comune obiettivo: il ritorno al Movimento delle origini. Tradotto: meno Tv più web, meno riunioni di caminetto più decisioni condivise. L’opposto della gestione Di Maio. Il diretto interessato, però, va dritto per la sua strada, forte della grande popolarità di cui gode e del sostegno di Beppe Grillo e Davide Casaleggio. Non è detto che sia sufficiente a placare i mal di pancia interni. Perché a causa di alcuni errori di valutazione, da troppo tempo i grillini sono costretti a giocare in difesa. E per uscire dall’impasse tra i parlamentari - c’è chi pensa sia arrivato il momento di rimettere mano al codice etico per evitare di finire nel tritacarne a causa di un semplice avviso di garanzia. «Forse in passato abbiamo esagerato, stiamo cominciando a discutere tra noi su eventuali modifiche da fare», dice un eletto. Tutti si aspettano ulteriori colpi di scena dalle inchieste romane. E in attesa di evoluzioni, cominciano le manovre di smarcamento.

Martedì sera Roberto Fico è stato designato come futuro capogruppo alla Camera. Tra tre mesi sarà lui a guidare i deputati pentastellati in una fase delicatissima: a ridosso delle elezioni Politiche. L’incarico potrebbe essere decisivo per organizzare la battaglia finale contro Luigi Di Maio. E le quotazioni del presidente della Vigilanza Rai che già si è detto disponibile a sfidare il “delfino” - sono in costante ascesa. Almeno tra i parlamentari, che riconoscono in Fico lo stile francescano del movimentista della prima ora. La sua militanza, infatti, ha origini molto più antiche di quelle del vice presidente della Camera, si è sporcato gli stivali di fango quando nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul successo di Beppe Grillo. Ambiente, beni comuni, acqua pubblica. Sono questi i temi che hanno spinto capo della Vigilanza ad abbracciare il M5s. E sulla sua candidatura potrebbero convergere Ruocco, Lombardi, Taverna e Morra. «È vero, in tanti stanno puntando su di lui», ci spiegano, «ma anche Fico ha un difetto: non è abbastanza popolare all’esterno».

Ed è proprio per questo limite che nessuno se la sente di escludere un terzo contendente: Alessandro Di Battista. Sociale, telegenico, astuto. Formalmente sostiene l’amico Di Maio, «ma se decidesse di scendere in campo chi potrebbe fermarlo?», mugugnano dall’interno. Istituzionale e movimentista allo stesso tempo, Dibba è riuscito a sfilarsi come un’anguilla dalla beghe romane, nonostante fosse il primo sponsor di Virginia Raggi. Mentre il castello crollava, lui in casco e blu jeans cambiava aria, lanciandosi in solitaria nel tour centauro a difesa della Costituzione. A differenza di Di Maio, tra un’ospitata televisiva e l’altra, il deputato romano non disdegna il confronto coi colleghi. Anzi, è sempre presente alle assemblee e nei giorni dell’arresto di Raffaele Marra interveniva sulla chat del gruppo complimentandosi con Roberta Lombardi, l’unica ad aver denunciato per tempo le storture capitoline. Se scaricasse Di Maio attrarrebbe su di sé anche il consenso dell’ala ortodossa. Oltre a quello degli iscritti. Secondo un sondaggio condotto da Index per Piazza Pulita, Dibba sarebbe il candidato più gradito agli elettori pentastellati. Il vice presidente della Camera dovrebbe accontentarsi del secondo piazzamento. La partita è appena iniziata.