La differenza, tra Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, è tutta lì: nella forza di reggere il “ peso” dell’alleanza con Verdini. Indispensabile per entrambi. Renzi quella forza ce l’aveva, perché il vento della popolarità sembrava consentirgli tutto. Gentiloni s’incammina sulla strada del governo con troppi fucili puntati e senza uno scudo altrettanto robusto: impossibile reggere gli attacchi di minoranza dem e opposizione, pronte a sparargli addosso in caso di formale ingresso di Ala nell’esecutivo. Passo a cui Gentiloni rinuncia, e che però lo azzoppa prima ancora di scendere dal Colle: Verdini firma una nota durissima insieme col viceministro uscente all’Economia Zanetti, in cui comunica: « Senza alcuna contropartita, non voteremo la fiducia a un governo che ci pare al momento intenzionato a mantenere uno status quo, che più dignitosamente sarebbe stato comprensibile con un Renzi- bis » . Tutto perché « dal presidente incaricato » , spiegano Verdini e Zanetti, « non abbiamo avuto alcun riscontro » . È la bomba che rischia di rendere ancora più impervio il tentativo di Gentiloni. Al Senato senza i 18 voti del gruppo Ala la fiducia è una roulette russa con poche speranze di uscirne illesi. Pesa e colpisce il fatto che Denis diffonda il comunicato quando l’incontro tra Gentiloni e il capo dello Stato Sergio Mattarella non si è ancora concluso. Segno che l’ex coordinatore di Forza Italia prova a giocarsi il tutto per tutto: ora o mai più. Sa che questa è per lui l’ultima occasione per entrare in un governo e legittimarsi politicamente. L’esclusione rischia ora di diventare un marchio di impresen- tabilità istituzionale difficile da cancellare.

Al Senato il resto del pulviscolo centrista evapora di continuo e non ci si può accampare con serenità neppure un esecutivo di scopo come questo. Gentiloni lo sa ma non riesce a fare altrimenti. Si era partiti con la richiesta congiunta di Renzi e Alfano affinché il nuovo governo nascesse con il sostegno «del più largo spettro di forze possibili». Ridursi a dare un ministero al gruppo di Denis anziché lasciarlo nell’ombra, era davvero deludente, come svolta.

Il fronte centrista contribuisce a impedire il grande passo verso Denis. Ci sono i fucili spianati dei cinquestelle, e d’accordo, e quelli della minoranza dem pronti a caricarsi in vista del congresso, ma a chiudere la sequenza di veti sulla legittimazione di Ala interviene come previsto anche Angelino Alfano, che avrebbe dato via libera solo a fronte di una visibile compensazione, in favore dell’Ncd, iun Consiglio dei ministri. Troppi se e ma. Che rischiano però di azzoppare in partenza Gentiloni. «Se il premier incaricato condivide il pregiudizio schizzinoso nei nostri confronti? Spero proprio di no, spero riesca nel suo tentativo...», chiosa nel modo più sibillino Giorgio Lainati, fedelissimo di Denis, interpellato poco prima che il capo decida di certificare la rottura con Gentiloni. «Mentre il governo esamina la legge elettorale c’è bisogno di un governo...», aggiunge il deputato della Vigilanza Rai. Concetto che di lì a poco Verdini riporterà nel suo comunicato: « Samo convinti che il Paese abbia bisogno di un governo nella pienezza delle sue funzioni», per far fronte alla «imprescindibile necessità di una legge elettorale». Ma senza rappresentanza non c’è fiducia, è lo slogan di Denis. Vuol dire che il balletto dei numeri, al Senato, ricorderà molto da vicino quello dell’ultimo governo Prodi.