La doppiezza togliattiana era una cosa seria. Nell’epoca della post– verità, doppiezza è far finta da una parte di giocare alla Playstation e dall’altra trattare fino all’ultima briciola di potere. Doppiezza è condurre una campagna referendaria per il Sì accusando di poltronismo gli esponenti dell’opposizione e, dopo la schiacciante vittoria del No, restare avvinghiati a ministeri e posizioni di governo come cozze agli scogli. Doppiezza è interpretare l’epopea dell’uomo di parola che perde la scommessa e fa gli scatoloni, premurandosi di imbullonare nei posti chiave fidate figure strategiche che possano assicurare continuità nella gestione del potere in vista, ad esempio, delle importanti nomine di primavera.

C’è qualcosa che stride terribilmente tra l’immagine del Cincinnato che Matteo Renzi cerca di accreditare nelle sue cronache Facebook da Pontassieve e i poco edificanti ( e mai smentiti) retroscena che hanno accompagnato la nascita del nuovo governo. Tra la consapevolezza con cui il neo– presidente Paolo Gentiloni cerca di sfilare l’esecutivo dalla partita della legge elettorale e la sfrontatezza con la quale il segretario del Pd continua a non voler capire cosa è accaduto il 4 dicembre.

Eppure, lungi dal volerne dare una lettura partitica, la trionfale affermazione del No è scaturita dalla combinazione di alcuni fattori molto chiari. Si è certamente manifestata nella consultazione referendaria una opposizione alla politica del governo Renzi e la diffusa preoccupazione che il prolungarsi della sua esperienza potesse rappresentare non un elemento di stabilità ma un acceleratore di crisi. D’altro canto, un ruolo non secondario della determinazione del risultato lo ha giocato la percezione di una insostenibile leggerezza, da parte del fronte del Sì, nel maneggiare la legge fondamentale dello Stato, tradottasi in un motivato giudizio negativo sulle soluzioni di merito proposte dalla riforma. Infine, nell’affermazione del No si è riflesso un rinnovato bisogno di unità nazionale, avvertito come antidoto necessario, anche se non sufficiente, rispetto a una crisi mondiale che dall’economia si sta estendendo alle regole di base della convivenza civile.

Queste diverse sensibilità hanno alimentato un ampio e variegato “ fronte del No”: un fronte costituzionale eterogeneo e trasversale che non ha mai coltivato la pretesa, e neppure l’ambizione, di diventare fronte politico. Per questo, di converso, pretendere di intestarsi politicamente il 40 per cento di elettori che hanno scelto il Sì – come ha fatto Renzi ancora ieri nella direzione del Pd – e sfoderare su quella base un nuovo guanto di sfida per la riconquista del potere, significa non aver capito proprio niente di ciò che è successo il 4 dicembre. Significa perseverare nell’errore originario di aver fatto della materia costituzionale il terreno di una resa dei conti politica di fronte al Paese.

Questo peccato originale, con la lunga serie di strappi e forzature che su di esso sono stati innestati, ha fatto sì che dalla battaglia referendaria il Paese uscisse dilaniato. La scena del premier uscente che svolge consultazioni parallele nel suo ufficio di governo, che stila liste di ministri, blinda i fedelissimi e indica la data per le elezioni fa ritenere che, purtroppo, il metodo delle forzature istituzionali e l’approccio divisivo alle regole del gioco non sia stato seppellito dalla valanga dei No. Tutto ciò, infatti, si pone in sostanziale continuità con un lungo e poco edificante catalogo di violazioni che hanno segnato dapprima il procedimento di approvazione della riforma costituzionale e della legge elettorale, e poi la campagna referendaria governativa.

Da qui origina la richiesta di discontinuità, anche da parte di chi come noi di “ Idea” è e resterà all’opposizione fino all’ultimo giorno della legislatura. Essa incarna l’esigenza di archiviare non solo una stagione e il suo protagonista, ma anche e soprattutto un sistema di potere e una concezione della politica. La sostanziale continuità nella compagine di governo è un bruttissimo segnale. Ora tocca al presidente Gentiloni decidere se assecondare fino in fondo l’ansia di riconquista dell’ex premier, e piegare perciò le scelte di governo alle esigenze della imminente campagna congressuale del Pd, o rompere gli schemi incaricandosi, pur nella differenza dei ruoli e delle posizioni, di avviare la ricucitura del tessuto di un Paese uscito lacerato da una vicenda lunga e sfibrante.

Il primo banco di prova sarà l’approvazione di una nuova legge elettorale che consenta di andare al voto il più rapidamente possibile. Se decine di milioni di italiani non si sono espressi invano, è evidente che ciò dovrà avvenire con il più ampio consenso possibile. E perché ciò avvenga, è importante non solo che il Parlamento si riappropri della sua centralità nelle materie istituzionali, ma anche che la gestione del potere e degli affari di governo “ cambi verso”. Superare Renzi non basta. È necessario archiviare il renzismo.