Tra il referendum perso da Renzi e quello che si svolse il 9 e 10 giugno 1985 sulla scala mobile, i punti di contatto sono molteplici ed evidenti. Allora il fronte del Sì guidato dai comunisti perse con un onorevole 45%. Ma nelle elezioni successive il Pci non superò il 26% dei voti.

Nelle settimane precedenti il referendum del 4 dicembre uno dei politici più astuti della prima e della seconda Repubblica, l’ex presidente del Senato Franco Marini, ripeteva a tutti lo stesso ritornello: « Sulla carta il No ha già vinto. La mia sola speranza è che questo referendum ricorda molto quello del 1984 sulla scala mobile. Anche allora eravamo convinti di perdere. Mi ricordo una riunione, il giorno prima del referendum, in cui dissi: “ Perderemo di certo, ma questa battaglia la dovevamo fare”. Invece, a sorpresa, vincemmo » .

Non è andata come Marini sperava, ma in effetti tra il referendum di Renzi e quello che si svolse il 9 e 10 giugno 1985 i punti di contatto sono molteplici ed evidenti. Anche allora la posta in gioco andava molto al di là del merito del quesito, pur estremamente importante in sé. La vittoria dei referendari, come in questo caso, avrebbe avuto come conseguenza immediata e inevitabile lo sgombro da palazzo Chigi del presidente del consiglio, Bettino Craxi. Erano in ballo non solo due schieramenti politici, da un lato il Pci fresco orfano di Enrico Berlinguer, dall’altro il Psi di Craxi con dietro tutta la maggioranza di allora, ma due concezioni alternative e antagoniste dei futuri assetti sociali del Paese. I due fronti, infine, erano anche in quel caso trasversali: non riflettevano cioè le percentuali dei consensi incassati dalle forze politiche presenti nei diversi schieramenti.

Il No all’abrogazione della legge del 1984 che tagliava quattro punti di scala mobile ottenne il 54,39% dei consensi, con un’affluenza alta ma per l’epoca non eccezionale del 77,90% del corpo elettorale. Per il Pci, principale partito a sostenere l’abrogazione della legge con Democrazia proletaria e la Lista Verde, quasi irrilevanti, e con il Movimento sociale italiano neofascista, la batosta fu esiziale: non risalì più la china che in realtà aveva iniziato a discendere già dalle elezioni politiche del 1979. Tuttavia proprio il carattere fortemente identitario del fronteggiamento poteva autorizzare speranze di segno opposto. Sarebbe stato lecito attendersi che quel corposo 45,70% dei Sì, si riversasse poi, alle succcessive elezioni, in massima parte nei voti per il Pci. Se alla guida del fronte battuto ci fosse stato Matteo Renzi probabilmente avrebbe fatto cal- coli del genere. Magari avrebbe anche scoperto che mentre quel 45% andava diviso solo tra un partito confinato nel ghetto politico perché neofascista e la corazzata di Botteghe oscure, i consensi, dall’altra parte, andavano divisi tra Dc, Psi, Pli, Psdi, Pri e Radicali. Un’accozzaglia.

Quando le urne si riaprirono per le elezioni politiche, due anni più tardi, il Pci non andò oltre il 26,57% dei consensi, a dimostrazione di quanto sia assurdo pensare di trasferire di peso i voti referendari sulla lista di partito. Con un salto avanti di 31 anni, è possibile elencare le variabili che entreranno in gioco alle prossime elezioni. Prima di tutto ha votato a favore della riforma anche una percentuale di elettori che voleva l’abolizione del Senato ma non per questo è soddisfatta dall’azione di governo, che non si è affatto esaurita nella riforma affossata nelle urne. In secondo luogo fare i conti senza la campagna elettorale è sempre fuorviante: i sondaggi prima della lunghissima campagna elettorale di questo referendum registravano una netta maggioranza dei Sì, ed è proprio basandosi su quelle previsioni che Renzi ha deciso di alzare dissennatamente la posta. Ma le campagne elettorali cambiano le cose, come sa bene Silvio Berlusconi che ha una lunga storia di campagne iniziate da sconfitto e finite in pareggio o da “ vincitore morale”. Infine, azzardare previsioni senza sapere quale sarà la legge elettorale è come tentare di orientarsi con certezza nel buio più profondo. Perché andare alle urne con una legge elettorale o con un’altra comporta scelte e delinea orizzonti destinati a incidere a fondo sulle intenzioni di voto. Un proporzionale con soglia di sbarramento alta renderebbe inevitabile, dopo le elezioni, la coalizione di governo formata dal Pd e dal partito di Berlusconi: gli elettori sarebbero chiamati a scegliere sapendo che quella è la sola prospettiva in campo. Un premio di maggioranza assegnato alle coalizioni, invece, obbligherebbe il Pd a dichiarare in anticipo l’eventuale asse con i centristi di Alfano e Verdini, o peggio a inserirli nelle proprie liste, con effetti prevedibili sulle reazioni dell’elettorato di sinistra. Ci sono poi variabili strettamente legate alle scelte che farà Renzi in questi giorni. La sua permanenza a palazzo Chigi sarebbe tombale: molti elettori la interpreterebbe come l’ennesimo trucco di un leader truffaldino. L’eventuale “ Notte dei lunghi coltelli” che il segretario sta preparando nel suo partito potrebbe portare all’uscita dei rottamati dal Pd. Le guardie renziane tripudierebbero, ma per tutti quegli elettori che hanno votato Sì turandosi il naso in nome del “ patriottismo di partito” ereditato dal Pci suonerebbe invece l’ora del “ liberi tutti”.

E’ tuttavia vero che una delle variabili principali è rappresentata proprio dal lasso di tempo tra referendum ed elezioni. E’ probabile che se si fosse votato subito dopo il referendum sulla scala mobile, il Pci avrebbe ottenuto risultati molto più confortanti, pur senza arrivare al 45% referendario. Da questo punto di vista Renzi ha tutte le ragioni nel voler votare presto. Però avrebbe dovuto pensarci prima, preparando una strategia meno sgangherata in caso di sconfitta. Se avesse avuto a disposizione leggi elettorali adeguate potrebbe oggi tentare davvero il colpo delle elezioni politiche prima che l’effetto referendum svanisca. Ma quell’effetto, in linea di massima, non va oltre il centinaio di giorni e che le urne si riaprano entro il 10 marzo è una scommessa troppo azzardata persino per Renzi.