Difficilissimo andare avanti. Ma assolutamente impossibile tornare indietro. A settantadue ore dalle dimissioni, Matteo Renzi si trova in questa infelice e tuttavia assai prevedibile ( e da tanti prevista) situazione. Ha aperto la crisi con le sue dimissioni e ha impostato il suo atteggiamento su due proposte entrambe subito diventate un vicolo cieco: un governo con appoggiato da tutte le forze politiche oppure le elezioni a strettissimo giro.

Difficilissimo andare avanti. Ma assolutamente impossibile tornare indietro. A settantadue ore dalle dimissioni, Matteo Renzi si trova in questa infelice e tuttavia assai prevedibile ( e da tanti prevista) situazione. Ha aperto la crisi con le sue dimissioni e ha impostato il suo atteggiamento su due proposte entrambe subito diventate un vicolo cieco: un governo appoggiato da tutte le forze politiche oppure le elezioni a strettissimo giro. Quel governo non ci sarà; le elezioni subito neppure.

Vorrebbe a questo punto afferrare il reincarico che Sergio Mattarella ad occhi chiusi è pronto ad affidargli per un Renzi- bis. Ma ha detto ai quattro venti che mai e poi mai si sarebbe ripresentato in caso di sconfitta al referendum. Ci ha messo dentro considerazioni politiche ( « Non ci sto a farmi logorare » ) e, quel che più conta, valutazioni etiche ( « Sono diverso dagli altri leader, non sto attaccato alla poltrona » ). Dunque indietro non si torna, ma andare avanti non si può. In psicologia, nella teoria sistemica, si chiama ' doppio legame': qualunque scelta fai è sbagliata. Perciò rimani fermo. E impazzisci. Per evitarlo, occorre fuoriuscire dallo schema. Per esempio, in questo caso, passando la mano. A Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri.

Forse è l’unica via d’uscita possibile. Ma non è indolore, tutt’altro. Renzi ambisce al reincarico perché sa bene che per gestire al meglio la delicatissima fase che deve portare alle urne, appuntamento ormai certo dopo l’uragano di No al referendum, che si sostanzia - tacendo delle altre priorità - sia della riscrittura della legge elettorale sia dell’intervento sulle banche, prima fra tutti il salvataggio di Monte dei Paschi, il posto migliore dove tirare i fili è palazzo Chigi. Non solo. L’ex sinda- co di Firenze sa bene che se esce da quel palazzo adesso, travolto dalle urne popolari, è possibile non ci rientri mai più. Qualunque sia il modello elettorale che vedrà la luce, infatti, a meno di cataclismi allo stato difficilmente immaginabili, è verosimile che i Cinquestelle finiranno per prevalere e il governo proveranno a farlo loro. Ma anche se non ci riuscissero e si dovesse precipitare sulle larghe intese Pd- FI è assai improbabile, per non dire impossibile, che la scelta ricada sulla sua persona.

Finito? Macché. Renzi conosce anche un’altra, inflessibile, legge della politica, poco importa se sia prima, seconda o terza repubblica. Una legge non scritta ma appunto ferrea, che dice che finché un leader è in sella viene venerato, onorato e ubbidito. Anche sopportato, ma tant’è. Ma non appena perde consenso, comincia a stare su un piano inclinato, la discesa è rapidissima. Tradotto: fuori da palazzo Chigi, Renzi diventa di colpo molto più debole; preda dei giochi di corrente ( peraltro già corposi) nel Pd; capo dimezzato; anatra zoppa. A quel punto l’addio anche alla guida del partito diventa un count down.

E, di conseguenza, si comprende perché neppure la scelta di lasciare è così semplice. Significa, come visto, auto amputarsi di una fetta rilevante di leadership. E veder risucchiati come da un buco nero i margini di manovra politica. Nel primo versante, se sarà un eventuale governo Gentiloni a condurre in porto la riforma elettorale, sarà stato lapalissianamente il governo così targato ad aver tagliato il traguardo. Idem per il salvataggio delle banche o la trattativa con la UE sui migranti. Mai cioè con Renzi al comando, mai con lui autorizzato ad inserire il successo nel curriculum politico; mai suo il petto su cui appuntare l’eventuale medaglietta da spendere mediaticamente. Di converso, invece, sarà comunque a lui capo del Pd che verranno addebitati eventuali insuccessi. Se Matteo fa un passo indietro, ci guadagna senz’altro sotto il profilo della coerenza. Ma può risultare un obiettivo effimero, sommerso nella memoria degli elettori dalla necessitata impopolarità delle misure da prendere. Comunque addebitabili alle politiche precedenti svolte dal suo governo.

Fin qui, dunque, Renzi. E Mattarella? Il capo dello Stato ha fatto sapere con chiarezza che sciogliere le Camere con due diverse leggi elettorali è un non senso. E perciò vuole un governo nella pienezza dei poteri, non un esecutivo dimissionario che viaggia a scartamento ridotto e privo della necessaria autorevolezza per affrontare i problemi del Paese. Come negli altri Palazzi della politica, anche sul Colle immaginano che, se tocca ancora a Renzi, le opposizioni non gli daranno tregua: metterle tutte o anche solo una parte sedute al tavolo della trattativa per la legge elettorale sarà roba da acrobati, e senza rete. Un altro premier, magari meno incendiario e divisivo, più conciliante e pompiere, può riuscire in quella che comunque rimane una missione difficilissima. Il nodo vero della crisi sta qui. E nessuno può scioglierlo tranne chi lo ha prodotto. CARLO FUSI